Un Blog per proporre alcuni tra gli articoli che considero più belli tra quelli che ho scritto finora, sperando di onorare il lavoro del Giornalista che informa, intrattiene, suscita dibattito e opinioni. B.L.

martedì 23 novembre 2010

Il teatro nella società dell'apparire (Bruna Larosa)

È passato molto tempo da quando si riteneva che il teatro fosse il luogo delle maschere e in quella che oggi si ama definire la `società delle apparenze´ sembra non ci sia più spazio per questa interessantissima forma d´arte. È palese che ormai il potere del teatro non sia riconosciuto nella
contemporaneità, nonostante il ruolo che gli era stato attribuito, esso è stato via via sostituito da nuovi mezzi più comuni; così, se nell´Antica Grecia la tragedia aveva il compito di `purificare´ il pubblico mediante la katarsi, oggi i moderni mezzi di intrattenimento e informazione hanno superato per
preferenze e fruizione l´attività teatrale. In un clima nazionale di depressione solo chi crede davvero in questo linguaggio può andare avanti e avere la tenacia di proporre spettacoli innovativi e interessanti.

La Compagnia Bruzia Ballet è una realtà del panorama teatrale sorta a Cosenza dal desiderio di creare
qualcosa di innovativo proprio in questo territorio. Il teatro è stato spesso recettore dei vizi dell´uomo; attraverso le trasposizioni gli veniva affidato il gravoso compito di cristallizzare e palesare i mali dell´umanità creando una forte compartecipazione tra palco e platea. Riprendendo questa sfaccettatura la compagnia Bruzia Ballet propone un Musical, Barabba, che lo scorso 16 novembre presso il Teatro Morelli è arrivato alla sua settima rappresentazione. Quella proposta è una narrazione ricca ed emozionate, fluida e al tempo stesso piena di riflessioni, con una chiave di lettura immediata: si riflette su quanto sia giusto e legittimo giudicare un altro uomo per i suoi operati senza, magari, conoscerne l´animo; infondo in ognuno di noi alberga il bene e il male. In ciò il paradosso: il teatro, mondo della finzione è calato nel mondo reale in cui ognuno indossa una maschera e giudica con una certa facilità l´altro! Forte di un tale antefatto il musical propone come protagonista quello che, in una prima analisi, si può considerare "l´antieroe", recuperando per Barabba la dimensione umana fatta di bene e male, di peccato e purezza. Egli, nella sua cella in quella che crede sia la sua ultima notte, ripercorre in un
coinvolgente flashback gli episodi più significativi della sua vita mostrandosi a nudo, perdendo così la sua maschera di peccatore e riconducendosi a uomo tra gli uomini.
Il musical, rappresentato a Roma presso il Teatro Greco, ha ricevuto anche il plauso di Renato Greco, esperto e conoscitore del mondo teatrale.
Dell´affascinante mondo del teatro abbiamo parlato con Paolo Gagliardi coreografo, nonché direttore artistico della compagnia Bruzia Ballet.


Nonostante la crisi che sta attraversando il mondo del teatro il musical di cui lei è il coreografo sta riscuotendo un notevole successo, qual è il segreto?
Tutti noi della compagnia crediamo fortemente in ciò che facciamo, anche se dobbiamo riconoscere di essere dei `folli´ perché in questo clima di latenza investiamo le nostre energie in un campo forse troppo poco considerato. Eppure proprio il fatto di averci creduto ci sta regalando delle reali
soddisfazioni.

Per emozionare bisogna emozionarsi, eppure fare il coreografo significa trasmettere le proprie idee ai ballerini, quindi persone `altre´ che dovranno esprimere ciò che lei ha pensato. Come si fa a trovare un punto di incontro?
La profonda stima che nutro nei confronti del corpo di ballo è essenziale per sapere che ognuno di loro ha qualcosa di bello da esprimere e dare. Nella loro individualità riescono a darmi tanto e cerco sempre di mettere in luce il loro personale modo di interpretare un´emozione. Non entro nella sala con la coreografia pronta, si crea piano piano, tutti insieme. Si parte da un´idea, un input, poi spesso accade che il `mio´ movimento su un ballerino risulti anche migliore: riesca a interiorizzarlo e a rispecchiare ancor meglio ciò che io stesso pensavo!


Uno spettacolo teatrale, ancor meglio un Musical si compone di canto, recitazione e ballo, ma cosa c´è prima di arrivare ad avere un canovaccio da seguire?
Sicuramente alla base di tutto c´è una profonda intesa tra i membri del consiglio della compagnia seguiti dalla coesione e dal confronto libero e costruttivo con tutti gli altri. Dietro uno spettacolo c´è sempre un
profondo studio e un´ampia ricerca: del personaggio innanzitutto, poi delle ambientazioni, dei luoghi. Si scava dentro se stessi per trovare l´emozione giusta, quella che va assolutamente condivisa per far capire il proprio punto di vista circa i personaggi. Il lavoro introspettivo è alla base di ciò che
si porterà in scena. La nostra compagnia non penalizza un´arte per l´altra: l´intesa di vedute tra me, coreografo e Antonio Conti, regista, ha dato come esito la totale commistione di ballo e recitazione, cosa che non sempre si riesce a ottenere. Puntando tutti allo stesso obiettivo, cioè trasmettere
delle emozioni al pubblico, abbiamo raggiunto questo risultato di coesione però c´è voluto un lungo lavoro di discussione per sfatare le diffidenze iniziali che, provenendo da due `mondi diversi´, portavamo con noi.


Pubblicato sul n. 46 di MezzoEuro in edicola dal 20 novembre 2010.

lunedì 22 novembre 2010

Pennelli d'autore (Bruna Larosa)

Tutto ciò che riguarda la cultura e l’arte in Calabria ha purtroppo il sapore della rarità e dell’eccezione. Sempre protratti alla ricorsa delle grandi opere, le stesse che nella maggior parte dei casi si risolvono in ‘semplici’ cattedrali nel deserto, non si è soliti concentrare l’attenzione alla valorizzazione degli aspetti culturali presenti. Così mentre siamo tutti consapevoli del fatto che non solo la nostra terra sia custode di immani bellezze naturalistiche e di risorse archeologiche non ben valorizzate, ne’ custodite, allo stesso tempo siamo impassibili testimoni di giovani talenti dell’arte che spesso devono spostarsi altrove per dar sfogo al loro talento. Una sfaccettatura della fuga dei cervelli, questa, spesso messa in ombra da altri aspetti considerati dai più maggiormente competitivi nel mondo del lavoro e dello sviluppo. In ogni caso si tratta di una perdita per la nostra regione che arranca dietro le altre scopiazzando dei modelli che mal di confanno al suo spirito, piuttosto di creare un’identità propria fatta con le sue bellezze e i propri talenti. Non può esserci sviluppo senza ricerca e senza cultura, una regione che vuole risollevarsi dallo stato di inferiorità in cui è stata calata non può prescindere da tali particolari, spesso troppo dimenticati e svalutati. Alla luce di tutto ciò viene da chiedersi se è possibile dar sfogo al potere creativo e cosa si deve essere spinti e disposti realmente a fare per potersi
esprimere.

Abbiamo parlato di questo con un giovane artista contemporaneo, Pasquale De Sensi, lametino d’origine ed esatto modello dell’artista eclettico e appassionato. A soli ventisei anni ha partecipato alla Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea svoltasi a Roma e grazie alle sue opere ha avuto una segnalazione al Premio Celeste 2010 nella Sezione Grafica, oltre ad essere stato presente in numerose esposizioni sia collettive che personali sparse per tutta l’Italia.



De Sensi, ad oggi lei è un interessante personaggio nel panorama dell’arte contemporanea, che tipo di studi ha seguito per migliorare e maturare questa sua propensione?
Ho frequentato diverse Accademie di Belle Arti; a Roma, a Reggio Calabria, a Perugia, a Urbino, ma contemporaneamente ho sempre seguito un mio percorso di studi autonomo. Penso infatti che l'arte non si impari da altri e non si possa insegnare a nessuno. E’ un vero e proprio mestiere che richiede impegno e costanza ed il lavoro, per non diventare un sacrificio e quindi un danno, deve necessariamente corrispondere a una passione, a una inclinazione spontanea.


Da cosa trae ispirazione e quale messaggio intende lanciare con la sua arte?

L’ispirazione proviene soprattutto dalla musica che ascolto e dai libri. Ogni immagine che propongo è un pensiero diverso; mi interessa sopratutto creare dei contrasti e delle analogie visive abbastanza forti da suscitare nell'osservatore una ricerca di senso. Non traggo molti spunti dalla realtà di tutti i giorni che al massimo mi limito a fotografare ed usare come base. Senza il bisogno autentico e intimamente indispensabile di comunicare il proprio immaginario, l'artista rischia di diventare una specie di uomo di spettacolo, che lavora solo per il successo personale. Credo che per non cadere in questo genere di aberrazioni non si debba mai perdere il contatto con le proprie origini e la propria formazione intellettuale.

Calabrese d’origine ma continuamente in viaggio, è un desiderio o una necessità dettata, magari, dallo stato dell’arte nella nostra regione?

Le tematiche e i linguaggi con cui si confronta chi lavora nell'ambito dell'arte contemporanea possono essere definiti globali poiché non appartengono a questa o a quella regione; è per questo necessaria una apertura verso l'esterno. Ho vissuto per due anni a Reggio Calabria, una città con un  clima e un paesaggio invidiabili, eppure, appena possibile, il desiderio di vedere cose diverse mi porta a spostarmi e a viaggiare molto.


Qual è, dunque, il suo punto di vista sullo stato dell’arte in Italia e in Calabria più in particolare?

Ad oggi in Italia le discipline che riguardano la cultura umanistica vengono difficilmente riconosciute e ripagate dalla società; succede con le arti figurative, come per la musica e per il teatro. Per quanto riguarda l’arte contemporanea in sé, il problema in Calabria è principalmente di tipo politico. La Calabria è oggettivamente fra le regioni più chiuse e retrograde rispetto alla scena contemporanea nazionale. A parte Cosenza, Catanzaro con il Marca e il parco della Roccelletta di Borgia, la Calabria rimane una regione dove i progetti più ambiziosi vengono lasciati sfumare e si consumano in beghe amministrative e polemiche. Penso, ad esempio, al caso di Lamezia Terme, dove da anni si parla di realizzare un museo del contemporaneo intestato a Luigi Di Sarro: di fatto il progetto è fermo e diventa di anno in anno più modesto. La classe politica spesso non comprende che non può esserci sviluppo reale senza cultura.


Pubblicato sul n.° 46 di Mezzoeuro in edicola da sabato 20/11/2010.

lunedì 15 novembre 2010

Plasmata dal fango (di Bruna Larosa)

I dissesti idrogeologici non sono nulla di nuovo in Calabria: ogni provincia mese dopo mese ha fatto la conta dei danni dovuti all’incuria degli agenti atmosferici e all’errata fruizione del territorio. Costruire in maniera selvaggia, procurare incendi per ricavare zone edificabili, abbattere le piante per guadagnare sul legno ha infatti un costo molto più alto di quanto con superficialità si possa pensare. La casa rimane il bene primario nell’immaginario collettivo, così quando si ha l’opportunità di averne una propria, senza magari spendere una cifra eccessiva, se ne approfitta pensando di realizzare un affare. Questo è la mentalità in cui affonda le sue radici il mercato dell’edilizia senza coscienza. Al circolo vizioso che viene a crearsi tra quello che si può definire un costruttore senza scrupoli e l’ignaro cittadino va poi ad accostarsi l’estrema facilità con cui vengono concessi i condoni edilizi dai Comuni, tanto che più che un’attenta verifica del progetto e del terreno su cui sorge l’edificio, il tutto sembra una semplice formalità. Così ogni volta che il cielo s’annuvola il pensiero corre alle zone già colpite e a tutte quelle che potranno essere ‘le prossime’ vittime. Da mesi a Catanzaro ci sono degli sfollati poiché i problemi provocati dal maltempo la scoro inverno ancora non sono stati risolti. Sette tra i cittadini di Janò, il quartiere colpito hanno costituito il Comitato di Emergenza Janò. Tra i membri del Comitato Luigi Rubino, giovane del posto attivamente impegnato sul suo territorio.

Luigi, com’è sorta l’idea di creare un Comitato di Emergenza?
Il comitato è nato nel febbraio 2010 dopo che il territorio è stato colpito gravemente dal dissesto idrogeologico. I componenti principali del comitato sono sette persone tutte residenti nel quartiere; la maggior parte di loro ha perso la casa per via delle frane.


Quali sono e come vengono espletate le principali funzioni del Comitato?
La funzione principale è quella di lottare per i diritti della popolazione e in particolare di coloro che hanno perso la casa. Creiamo momenti di incontro, assemblee periodiche per fare il punto della situazione sugli interventi e le misure adottate dagli organi competenti sulla base delle esigenze di cui il territorio necessita. Nei periodi di allerta, cioè quando a causa delle precipitazioni è più alto il rischio, gli incontri sono più frequenti. Tutto ciò per informare la popolazione e condividere le idee altrui. Fondamentale per il comitato è l'ing. Luana Urizio, anche componente della commissione emergenza designata dal comune e dal CNR Unical. Ella monitora e descrive con dovizia di particolari tutti gli aspetti della vicenda. Il Comitato è un nostro punto di forza nell’incontro con le istituzioni per avere notizie e sapere il punto sui lavori avviati, finanziamenti e le prospettive future. Uno dei momenti più intensi della nostra attività è avvenuto il 16 aprile scorso quando l’intera collettività di Janò si è riversata per le vie della città dando il chiaro segnale di essere contro al silenzio e all'immobilismo da parte delle istituzioni. Sempre nello stesso mese, in collaborazione con la protezione civile, vvf, polizia municipale e il comune di Catanzaro, abbiamo effettuato una simulazione di sgombero. Al di là del gesto eclatante la cosa più importante fatta finora non risiede semplicemente nella volontà di spronare le Istituzioni a fare sempre meglio, ma anche nel vigilare sui modi e sui tempi d'intervento per la messa in sicurezza del territorio.


Le vostre iniziative sono molto partecipate, come siete organizzati per raggiungere il territorio?
C'è da dire che nell'era del web e della telematica il nostro rimane pur sempre un quartiere e il metodo principale di diffusione delle notizie è il porta a porta. Ciò avviene per l'impegno di ogni singolo cittadino, consapevole del grado di pericolo in cui versa la popolazione. Accanto a questo è forte la voglia di "risollevarsi" coinvolgendo tutti, anche quelli che sono "al sicuro". Poi le informazioni viaggiano anche su facebook, sul blog e sulla bacheca della cappella di quartiere, in cui si affiggono tutte le comunicazioni. La vicinanza del Vescovo della diocesi di Squillace e il nostro stesso parroco ci stanno dando un grande aiuto dal punto di vista spirituale e morale.


A quali esigenze volete dar voce con il Comitato e cosa siete riusciti ad ottenere ad oggi?
La realtà che ci ha colpito comporta delle esigenze ben precise alle quali il Comitato vuole dar voce presso le istituzioni affinché si mantenga sempre vivo l’interesse per ciò che è accaduto. Vogliamo offrire assistenza agli sfollati, procurando loro un alloggio; dar attuazione a interventi di somma urgenza e avere delle forze di pubblica sicurezza a tutela del quartiere. Chiediamo risposte certe e chiare dalle amministrazioni, pur avendo appurato che lo stato delle casse è al verde anche per questi casi. Naturalmente la situazione è ancora precaria, eppure qualcosa si muove già da un po’. È avvenuta infatti l'assegnazione del progetto esecutivo da parte del comune alle ditte competenti e sono stati avviati diversi interventi per arginare tutte le problematiche inerenti la raccolta acque, canalizzazione, drenaggi, sondaggi e palificazioni per la messa in sicurezza del territorio.




Pubblicato sul numero di MezzoEuro in edicola dal 13 novembre 2010

giovedì 11 novembre 2010

C'è chi a Rosarno cerca un futuro migliore (di Bruna Larosa)

La Calabria è una regione di frontiera che ben conosce il dolore delle partenze vivendo continuamente sulla sua pelle il sapore degli addii. Conosce anche il fantasma degli arrivi, quelli dei barconi della speranza che si adagiano sulle sue coste con il loro disperato carico di vite umane. Arrivi, questi, che vengono vissuti con amarezza e insofferenza perché, complice la perenne colpevolizzazione mediatica, molti conterranei sono convinti che gli emigranti non possano essere un’opportunità, bensì un nuovo motivo di beffa e denigrazione.
Più volte nei paesi del reggino si incrociano gli stranieri, per lo più africani, rumeni, curdi e di altre etnie. Parlando con loro non solo si scopre che molti sono laureati o professionisti, ma si viene a conoscenza di culture tanto diverse quanto affascinanti e degne, al pari di tutte le altre, di essere rispettate e apprezzate. I disordini che hanno caratterizzato i giorni del rovente gennaio di Rosarno non vengono dal nulla. La rabbia repressa ha semplicemente fatto il suo corso e data la frustrazione non è implosa ma esplosa in maniera inesorabile. Nonostante l’emigrazione appartenga alla storia del Sud, oggi, possiamo realmente capire cosa significhi emigrare? Possiamo avere idea del sapore che si prova quando si lascia la propria terra, si attraversa il deserto, ci si imbarca su navi che nulla hanno di solido se non la disperazione? Tutto per un sogno: la speranza di realizzare un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Una speranza che si alimenta mentre si mettono insieme i soldi per partire e prosegue fino al momento di solcare il mare.

Abbiamo parlato di questo con Andrea Scarfò, che sta presentando in giro per l’Italia la sua mostra fotografica, Magna Italia, realizzata all’indomani dei disordini avvenuti nel paese della Piana di Gioia Tauro. Alcuni dei suoi scatti sono stati inseriti nell’archivio di rinomate agenzie di stampa nazionali, mentre altre gli sono valse una menzione speciale al concorso internazionale "From A to B" bandito da Euroalter in collaborazione con Youthmedia.


Andrea, il suo è un reportage dal profondo valore sociologico e non solo; realizzarlo l’ha portata a incontrarsi con una realtà molto dura. Qual è il clima che ha respirato a Rosarno e che ha voluto immortalare nelle sue foto?

Il cardine di un lavoro a carattere giornalistico è la capacità di astrarsi dal proprio modo di vedere le cose così da restituire una visione il più possibile vicina alla realtà. Proprio in quest’ottica ho provato a ritrarre la realtà di Rosarno. Alcune foto, ad esempio, illustrano scorci del centro abitato che è un po' simbolo della ‘incompiuta calabrese’; dico così perché i tratti sono quelli comuni a tantissime località:  i palazzoni di più piani che si articolano in altezza senza rifiniture esterne, ne sono un esempio lampante! La mostra è stata ospitata nella Biblioteca Civica di Taurianova, ho accolto diverse scolaresche; ho così avuto modo di chiedere ai tanti bambini come pensano si possa crescere in un ambiente siffatto e loro rispondendomi ‘disordinato dentro’, hanno detto tutto.


Magna Italia è stata ospitata in molte regioni. Come è stata accolta in Calabria e che reazioni è riuscita a suscitare in contesti diversi dal nostro?

La mostra è stata presentata in contesti molto differenti tra loro: da nord a sud, in contesti sociali e in altri culturali. Nessuno è rimasto indifferente! A Taurianova, paese nel cuore della piana di Gioia Tauro, le signore dell'università della Terza Età mi hanno detto: ‘Anche noi quando raccoglievamo
arance mangiavamo solo quello!’ Questo è il motivo per cui la gente semplice non è avversa ai lavoratori africani: si riconosce in loro e nelle loro fatiche. A Mantova, invece, mi è stato chiesto ‘Noi che cosa possiamo fare?’. Io rispondo che bisogna tenersi in contatto per creare una rete di solidarietà non solo a parole ma anche nei fatti; è per questo che con l'Osservatorio Migranti di Rosarno andiamo in giro per l'Italia a chiedere aiuto.


Per realizzare questo reportage lei si è recato nei luoghi adibiti a ricovero per i lavoratori stagionali quando loro, ormai, avevano deciso di lasciare Rosarno. Che esperienza è stata?

Quando ho finito ho pianto. Con le foto, a mente fredda, provo a raccontare che gli africani fin quando lavoravano e avevano quindi una retribuzione riuscivano a cucinare, nonostante ciò il freddo e l'umidità li faceva ammalare in modo cronico! Altro tema che affronto, raccontando i posti dove vivevano, è la mancanza di assistenza, solidarietà e vicinanza da parte dell'Italia delle Istituzioni. Pensiamo che gli africani non avevano corrente elettrica o acqua corrente potabile o impianto fognario, tutto ciò porta alla mancanza assoluta di igiene!



Essendo lei una persona impegnata e creativa si è mai domandata cosa avrebbe potuto migliorare la situazione e quali misure sarebbe stato opportuno mettere in pratica?

Considerato che tutto si è scatenato per via della schiettezza degli africani, che hanno deciso di non sottostare alle angherie di chi pretende di controllare il territorio e per questo hanno avuto ascolto e considerazione; credo che sia necessaria la solidarietà della gente comune. Proporrei, poi, con ancora più forza di rispettare e far rispettare le leggi. Ad esempio stabilire un prezzo degli agrumi al produttore più equo, dare lavoro facendo contratti regolari e fornendo, come prescritto dalla legge per i lavoratori stagionali, un reale alloggio per gli stessi. Non sono idee innovative, è semplicemente la constatazione di ciò che sarebbe giusto si facesse. Prospetterei, poi, che tutti i calabresi che ricevono contributi per lavoro bracciantile fittizio vi rinuncino. Non solo! Sarebbe anche opportuno che i sindacati si autodenunciassero come colpevoli di questo meccanismo. Sappiamo benissimo che da queste parti la ‘ndrangheta è la regista di ogni cosa, così, solo proponendo la giustizia e la legalità possiamo considerarci fattivamente impegnati a combatterla.



Pubblicato sul numero 44 di MezzoEuro in edicola dal 6 novembre 2010

martedì 2 novembre 2010

La sfida del dopo terremoto (Bruna Larosa)

Ci sono terre che non smetteranno mai di piangere i propri figli, sono i paesi coinvolti nelle calamità naturali che devono fare i conti con le vittime dell’incuranza di altri uomini, progettisti, costruttori o collaudatori che siano. È il caso della ferita aperta dal terremoto il 6 aprile 2009 tra gli Appennini abruzzesi. L’onda emozionale che si scatena in corrispondenza di eventi catastrofici è intensa e al tempo stesso labile, per questo l’attenzione e la sensibilità che si dimostra nell’immediatezza di un fatto non riescono a perdurare nel tempo. Generalmente la considerazione delle persone rispetto a una determinata problematica muta come cambia l’interesse dei media; ma nonostante siano sempre meno le finestre aperte sull’Abruzzo è passato troppo poco tempo perché il terremoto che ha devastato L’Aquila possa essere un semplice ricordo. Alcune parti della città sono avviate alla ricostruzione e tra un cantiere e un edificio sigillato tutta l’intera provincia appare essere un’insieme informe di polvere e lacrime. La gara di solidarietà che si è accesa nei confronti degli aquilani si è scatenata nelle settimane successive la tragedia trasformandosi in aiuti pratici e immediati.

Ma L’Aquila non è solo edifici e monumenti, bensì una città con suoi enti e le sue istituzioni; tra questi l’Università da sempre meta di numerosi studenti definiti fuori regione. Moltissimi universitari, all’indomani del terremoto, hanno chiesto il trasferimento in altri istituti di formazione; risuona forte l'eco delle parole di una ragazza che ha scelto di allontanarsi da L’Aquila ‘C’è bisogno di gente che lavori, ora. Che riesca a lavorare senza pensare a nulla perché se si riflette non si trova più la forza di reagire’. Malgrado la tragedia assistiamo oggi ad uno dei rari casi in cui un’Università impugna con forza il suo ruolo sul territorio e, invece di implorare sovvenzioni e aiuti, reagisce producendo politiche inclusive per gli studenti che vogliano immatricolarsi in uno dei suoi corsi di laurea. Per risorgere l’Università abruzzese attinge a piene mani dalla sua essenza più pura e si permette di puntare sulla ricerca e sulla formazione di giovani menti. Tra gli studenti che hanno colto la sfida anche una giovane calabrese, Federica Orlando, laureata in Mediazione Linguistica, che ha deciso di iscriversi al corso di laurea specialistico presso la Libera Università degli studi de L’Aquila.

Come mai ha scelto di iscriversi all’Università de L’Aquila?
Il corso di laurea specialistico in Mediazione Linguistica dell’Unical è stato chiuso, così per proseguire i miei studi ho avuto la necessità di guardarmi intorno e di spostarmi. Visto quanto è accaduto in Abruzzo ho deciso di iscrivermi a L’Aquila; certo sarebbe stato più semplice andare in una città con mille servizi e pagare lì le tasse, invece ho preferito dare il mio contributo proprio a questa università che di servizi può offrirne pochi, ma merita assolutamente il contributo di tutti per risorgere. 

Ad oggi ha riscontrato dei disagi particolari?
La Facoltà di Lettere è situata nella zona industriale, appena scesa dal bus il primo giorno mi si è stretto il cuore: una copisteria, un bar microscopico e solo fabbriche e capannoni. Ho avuto, però, modo di incontrare altri studenti che si sono ‘abituati’ alla situazione, solo per fare un esempio, i ragazzi si portano il pranzo da casa perché non ci sono servizi di alcun tipo.

Di dove sono i suoi colleghi e come si trova?
I miei colleghi sono principalmente di Napoli, Teramo, Sulmona, Avezzano, Roma… Sono l’unica calabrese della mia facoltà, scherzano sull’accento, ma tutti hanno dimostrato di essere particolarmente abituati ai ‘forestieri’.

Siamo tristemente abituati a sapere che L’Aquila è solo cantieri e polvere, lei che atmosfera ha respirato?
Il centro storico è inagibile, ma non bisogna pensare solo alla città. Tantissimi paesini limitrofi sono stati piegati dalla furia della natura e dall’incoscienza umana. Sono stata lì qualche giorno fa, in un bed&breakfast e mi sono ritrovata praticamente in mezzo alla natura! La struttura originale era stata definita inagibile e i proprietari hanno trasferito l’attività in container e anche loro abitano in uno di questi. Nonostante ci sia stata per alcuni giorni non posso neanche immaginare cosa significhi vivere così dopo aver avuto una vita diversa e tutte le comodità di una casa vera. Tra le persone c’è chi rivive il trauma, ma c’è anche chi sfrutta la tragedia, ad esempio, gli affitti per gli studenti sono altissimi soprattutto se paragonati a quelli di altre città che possono offrire servizi e altro! Le persone che ho incontrato hanno dentro una grande ferita, altre sembrano essersi chiuse e non so se col tempo riusciranno a superare la cosa. Tutti coloro che hanno avuto la volontà di rimanere, però, dimostrano di aver maturato una grande forza interiore dalla quale trarre la volontà di reagire e ricominciare.

Pubblicato sul n. 43 di MezzoEuro in edicola dal 30 ottobre 2010

lunedì 25 ottobre 2010

Laurearsi e arrangiarsi (Bruna Larosa)

Il ‘posto fisso’ inteso come modello di impiego tanto vicino e caro ai nostri stessi genitori è arrivato ai suoi ultimi anni. La situazione in Italia è, infatti, molto cambiata tanto che il contratto a tempo indeterminato si è trasformato in un mito e un miraggio. Sono numerose le teorie che si avvicendano sulla compianta scomparsa del posto fisso, di base c’è la crisi economica, ma a questa si accostano le voci di chi addita il lassismo di alcuni impiegati che non avendo onorato il loro lavoro hanno fatto preferire in termini di risultati la flessibilità e la mobilità. Il modello economico cui siamo abituati è ormai scomparso ed è assolutamente impensabile un ritorno allo stesso: troppi cambiamenti sono intercorsi, cambiamenti che riguardano soprattutto la mentalità imprenditoriale. Tale modifica avrebbe dovuto investire anche il mondo della formazione, ma di fatto non è stato così. Principalmente al Sud ci sono schiere di laureati che non trovano lavoro e per mantenersi si adattano a mettere da parte il proprio titolo e a darsi da fare per ciò che c’è. I principi dell’economia distinguono giustamente diversi tipi di disoccupazione, generalmente siamo abituati a sentir parlare di disoccupati ‘volontari’ e di quelli ‘involontari’; i primi sono coloro che decidono di non impiegarsi in un ambito lavorativo perché non lo riconoscono come proprio e ‘aspettano’ di meglio, gli altri sono coloro che vorrebbero lavorare ma non trovano. Nonostante la fisiologica ciclicità ‘crisi/ripresa’ ci troviamo oggi nel bel mezzo di uno stato latente di disoccupazione involontaria in Calabria come nel resto d’Italia. Appena una decina di anni fa avere un titolo di studio quale la laurea poteva significare fare la differenza rispetto ad altri aspiranti ad un posto o ad un concorso, oggi è invece palese che la massificazione dell’istruzione superiore non cammini di pari passo con le possibilità di assorbimento del mercato. I pochi concorsi indetti dalle amministrazioni sono assediati da numerosissimi aspiranti e ogni altra opportunità è costellata di incertezze. Così, laureati e beffati, dopo tanti studi i ragazzi sono costretti a fare i conti con il lavoro che non c’è, e che quando c’è non risponde alle aspettative che avevano costruito. L’opinione pubblica, complice la riforma universitaria Moratti, ha svalutato il titolo di studio a favore talvolta della praticità; accade che i laureati si vedano scavallare da persone magari con titolo di studio inferiore ma con esperienza, oppure da chi ‘vanta’ una laurea quadriennale. Abbiamo parlato di questo con Donatella Molino, giovane dottoressa che da quando ha conseguito il titolo non ha fatto altro che guardarsi intorno e cercare delle opportunità di lavoro.

Da quanto tempo si è laureata e in quale disciplina?
Mi sono laureata da tre mesi, il corso di studi prima triennale e poi specialistico mi ha portato a conoscere diversi meccanismi dell’economia e dello sviluppo. In particolare mi sono preparata ad affrontare problematiche nel campo della cooperazione e dello sviluppo dal punto di vista diplomatico.

Dal punto di vista professionale a cosa si è dedicata in questo periodo di tempo?
Ho mandato CV e domandine nella mia provincia, Cosenza e anche fuori regione, ma la situazione è drammatica in tutta Italia! Lo deduco dal fatto che su tantissime proposte che ho avanzato neppure un’azienda o un ente mi ha dato risposta! Mi sono informata e ho visto che è all’Estero che avrei maggiori possibilità di far valere i miei studi e il mio titolo, ma sarà sicuramente necessaria un’ottima preparazione in lingua straniera. Intanto, in attesa di una migliore sistemazione occupazionale sto lavorando in uno dei tanti call-center presenti a Rende.

Lei è dottoressa, i suoi colleghi di call-center che titolo di studio hanno?
I miei colleghi sono quasi tutti laureati, siamo lì nell'attesa di un lavoro inerente a ciò che abbiamo studiato e, intanto, ci sosteniamo economicamente con un impiego che poco e niente ha a che vedere con gli studi fatti.

Quando si intraprendono degli studi in un certo senso si insegue un sogno, lei e i suoi colleghi che considerazioni fate a proposito della diffusa situazione economico lavorativa?
Tra noi nei momenti di pausa riflettiamo spesso su come sia dura da digerire l’aver fatto tanti sacrifici per conseguire il titolo e poi ritrovarsi a fare un lavoro che speriamo ci servirà solo da tampone e per poco tempo. Mi rendo conto di quanto sia ‘triste’ dover parlare così, quando molte persone fanno la fila anche solo per un posto come il nostro, ma non si tratta assolutamente di ingratitudine, bensì voglia di realizzarsi per ciò che si desidera. Personalmente per come è il mondo del lavoro so che devo ritenermi fortunata ad avere almeno questo impiego, eppure è costante l’idea di poter avere qualcosa di più inerente alla preparazione che ho e agli studi che ho fatto!



Pubblicato sul n. 42 di MezzoEuro in edicola dal 23 ottobre 2010

lunedì 18 ottobre 2010

La 'ndrangheta ritornerà più forte di prima (Bruna Larosa)

Solo un incantesimo della Fata Morgana potrebbe forse ricomporre il complicato mosaico di poteri leciti e illeciti che influenzano la vita della popolazione che abita la punta d’Italia. Nella realtà però le favole non esistono e i giorni dei reggini sono costellati di paura, per ciò che potrebbe accadere e la consapevolezza che così non si può continuare. L’insistenza degli ultimi avvertimenti ai danni di coloro che lavorano contro la mafia, e la loro durezza non lasciano indifferente nessuno e l’opinione pubblica calabrese, ma non solo, vuole sia fatta chiarezza ponendo delle domande cui ci si aspettano precise risposte. Il problema delle intimidazioni, tuttavia, non è una novità, sebbene ultimamente si manifesti in maniera più viva e palese, come da alcuni anni non succedeva. La cittadinanza di Reggio Calabria, poi, ne ha una percezione certamente amplificata rispetto a quella che può essere trasmessa mediante le notizie scandite dai media. Se gli avvertimenti mafiosi lasciano tristemente interdetti si rimane assolutamente perplessi davanti a ciò che si è pensato per fronteggiare tale problema: l’invio dell’esercito a presidio delle zone sensibili. La popolazione del reggino si divide davanti a tale possibilità e sebbene il problema sia avvertito considerevolmente da tutti, aleggia per l’area metropolitana una certa diffidenza ed estraneità nei confronti del provvedimento che è stato presentato per limitare e, magari, sconfiggere il problema della criminalità organizzata.


Abbiamo incrociato i cittadini del reggino e della città metropolitana interrompendo anche se solo per un attimo la loro corsa per chiedere di condividere con noi la loro opinione su questo espediente che tanto fa discutere. Molti, invero, preferiscono non pronunciarsi, altri affermano la forza della ‘ndrangheta e l’inutilità di questa soluzione per gestire una situazione tesa e difficile, poi c’è chi invoca più sicurezza e chi è rassegnato alla situazione attuale, ricordando, probabilmente tempi peggiori.


‘Questo provvedimento non serve a nulla, afferma Francesca Cavallo, perché la mafia, di certo, non si farà intimorire dall'esercito. La ‘ndrangheta è sempre esistita ed esisterà sempre: questa è la realtà ed è inutile pensare che l'unione fa la forza o altro perché dobbiamo vedere in faccia la realtà e capire che parliamo di una vera e propria istituzione che non verrà mai a cadere!’. La ‘ndrangheta si presenta, quindi come la Forza per eccellenza, quasi fosse una ‘reale’ istituzione, convinzione che rinsalda le sue stesse basi e idea che purtroppo è ben radicata sul territorio. Anche altre persone si dimostrano dubbiose circa la bontà del provvedimento e propongono soluzioni alternative, ‘Non sono convinto dell'utilità dell’esercito a Reggio, dice Antonio Caristo, quello che è nato lungo anni di indifferenza e accondiscendenza non può essere risolto in pochi giorni con l'arrivo di contingenti militari. Questa decisione, inoltre, comporterà dei costi non indifferenti, soldi che sarebbe più opportuno destinare all'istruzione e ai ricercatori in modo da agevolare la ripresa delle lezioni e cercare di migliorare la situazione di caos in cui verte l’università’. Stefania Lombardo replica alla nostra domanda asserendo che a suo avviso ‘l’eventuale arrivo dell’esercito a Reggio Calabria probabilmente non risolverà niente e servirà solo da propaganda politica. Non è stato neanche specificato per quanto tempo sarà presente, magari per un breve periodo, il tempo necessario perché la piovra torni nella tana per studiare come rafforzarsi! A Reggio non serve l'esercito, ma persone come i magistrati e le forze dell'ordine disposte a lavorare anche sotto copertura per scovare cosa e chi c'è dietro a  tutto questo marciume, pur correndo il rischio di smascherare dei corrotti eccellenti, siano magistrati, politici, o agenti. Una misura necessaria, continua la ragazza, sarebbe quella di rafforzare il sistema di sicurezza dei magistrati che lottano contro le ‘ndrine. È un dato di fatto che la loro sicurezza sia precaria, sarebbero anche da aumentare gli stipendi di queste persone che ogni giorno, per amore verso lo Stato, mettono in pericolo la propria vita. Inoltre è vero che le intimidazioni sono fatte a Reggio Calabria, ma la situazione non è certo più mite in altre zone della regione, penso subito alla Locride, a questo punto perché inviare l’esercito solo nella città? Insomma credo sia riduttivo che il governo pensi sia sufficiente l'esercito a sconfiggere la mafia, dovrebbe, invece, concentrarsi su forze di sicurezza da gestire in maniera intelligente’. Giuseppe Falleti ascolta interessato la nostra domanda e poi si unisce al coro di coloro che ritengono tale provvedimento inutile, anzi, forse addirittura controproducente: ‘Credo che l'invio dell'esercito potrà servire solo e semplicemente a inasprire la situazione già tesa e difficile. La ‘ndrangheta è caratterizzata da vincoli familiari che legano le diverse famiglie per questo motivo è difficile che i nodi saltino: oltre ad un legame di interessi è vivo il legame di sangue. È vero che le famiglie possono avere degli screzi, ma è anche vero che potranno organizzarsi tra loro con una certa facilità e fare scudo unite contro lo Stato’. Incrociamo anche Chiara Placanica che, al contrario degli altri, si rivela favorevole al provvedimento che viene proposto. Convinta ci risponde che ‘ritengo che sia necessario l’invio dell’esercito a Reggio Calabria così si ha la possibilità di controllare più attentamente io territorio, specialmente i posti dove risiedono gli uffici giudiziari e in particolar modo l’area in cui hanno sede gli spazi della procura. Indubbiamente è un modo per scoraggiare o quanto meno provare a contenere le azioni intimidatorie nei confronti dei magistrati’.

Uniti contro la ‘ndrangheta, i reggini continuano le loro giornate fatte di piccole sfide quotidiane, divisi tra le bellezze della loro città e ciò che solo alcune persone tramano nell’ombra.

Pubblicato sul n. 41 di MezzoEuro in edicola dal 16 ottobre 2010

lunedì 11 ottobre 2010

Strani intrecci tra cultura e potere (Bruna Larosa)

Tutti si dicono sensibili allo stato della ricerca, alla ‘salute’ dell’università pubblica e nei momenti di maggior subbuglio se ne sono visti di professori farsi avanti e disporsi in prima linea contro il governo e i suoi drastici tagli dalla parte dei giovani e del futuro. Talmente convinti della bontà di ciò che facevano da non lasciare dubbi agli studenti: si è tutti uniti per un futuro migliore! Come moderni Napoleone hanno persuaso molti di avere a cuore gli interessi di chi lotta, tanto che viene da chiedersi: dunque quali sono i baroni?


Eppure chi frequenta i lunghi corridoi dei dipartimenti fasciati di luci e ombre non ha dubbi, il potere accademico e non il valore scientifico regnano sovrani, nonostante tutto. Così, mentre il sistema universitario subisce tagli e modifiche, il nocciolo duro dei suoi problemi sembra rimanere
nell’ombra. Quando si parla con ex dottorandi di questa o quella facoltà, ad esempio, emergono aspetti a dir poco inquietanti, sui quali regna l’assoluto e paradossale silenzio. È ormai una consuetudine dire che l’università sia in mano ai baroni, ma quanto ciò pesi realmente sul futuro, sulla formazione e
sulla ricerca lo si comprende solo analizzando il fenomeno ‘sommerso’ della sete di potere accademico. In fondo tutti gli ambienti chiusi seppur pubblici presentano dei loro vizi privati, va da sé che nel regno accademico non siano la ricerca e la cultura il fine ultimo, ma il semplice mezzo tramite cui pervenire a un maggior prestigio.


Può capitare, così, che un docente inviti un ragazzo alla fine dei suoi studi, a provare il dottorato, probabilmente lo studente è in gamba, ma capita pure che sia semplicemente capitato al posto
giusto nel momento giusto e, quindi, a sua insaputa venga usato come una pedina all’interno dei giochi di potere accademici. Riuscire ad affermarsi come professore agli occhi dei colleghi nella propria università e negli altri istituti accademici passa anche da qui: dalla capacità di imporsi e di far
emergere i ‘propri’ studenti, non necessariamente perché più bravi, semplicemente più utili in quel momento e in quel preciso contesto. Il ragazzo, forse ignaro, forse complice, si presta così ad un gioco che nella maggior parte dei casi lo porta a vincere il concorso di dottorato alle prime posizioni, riuscendo a percepire addirittura la borsa di studio prevista per i più meritevoli, mentre chi è realmente interessato a svolgere il triennio di studi dottorali scivola alle posizioni più basse o, addirittura, fuori dalla graduatoria utile per portare avanti la propria ricerca. Nessuno ammette apertamente questo meccanismo perverso, eppure non sono certo voci di corridoio quelle che descrivono questa sfaccettatura del volto torbido delle università.


Riuscire a far entrare un proprio studente corrisponde al riconoscimento del prestigio del docente da parte dei colleghi e si trasforma in un tassello essenziale nell’affermazione del proprio rilievo in ambiente accademico. Essere un dottorando dovrebbe voler dire offrire il proprio lavoro alla ricerca,
migliorare e testare la propria tecnica e la propria volontà di proseguire un percorso in un tale contesto. Invece, coloro, che hanno realmente talento per la ricerca solo di rado riescono a mettersi in luce. Far vincere un concorso di dottorato è solo ciò che di più manifesto si riesce a percepire dall’esterno,
così come accade per gli iceberg, ciò che sta sotto, e quindi non si vede, è ancora più pericoloso. Sedotti intellettualmente dal professore i neo dottorandi cominciano a studiare, a sviluppare idee e vengono appoggiati anche nelle proposte più stravaganti, cominciano, ad esempio, i viaggi in ogni dove,
ovviamente a spese del dipartimento cui si afferisce, sia per raggiungere biblioteche estere che università o anche per partecipare a seminari di approfondimento. L’idillio può durare un giorno o più, ma è assolutamente raro che superi i tre anni. Quando si viene abbandonati nel bel mezzo delle attività
l’esperienza di ricerca diviene difficile se non impossibile, ci si arma di tenacia e si cerca di portare avanti in maniera dignitosa il proprio lavoro senza più nessuno aiuto. Pochissimi gettano la spugna e si va avanti alla meno peggio, pur cominciandosi a chiedere ‘dove si è sbagliato, cosa sia successo,
perché le cose sono cambiate’. Il senso di avvilimento e la frustrazione sono forti, ma nulla è paragonabile a cosa precipita sulle spalle dei malcapitati quando vengono abbandonati alla vigilia della discussione o immediatamente dopo.


Compiuti tre anni di studio intensi, conditi di viaggi e di opportunità arriva il momento in cui il maestro ‘scarica’ l’allievo: ‘Non c’è spazio nel mondo della ricerca, non hai saputo sfruttare al meglio questa occasione’, quanti errori si leggono allora nel proprio percorso, strano però che il professore, che tanto sembrava preoccuparsi per l’avvenire del suo protetto, non lo abbia messo in guardia prima! Verità vuole che il tutto si collochi perfettamente nel gioco di ruolo e potere che c’è dietro il bisogno di
affermazione personale che supera di buona misura l’amore per la conoscenza e il sapere. Andando a tirare le somme questo gioco penalizza chi è realmente portato per gli studi accademici, scavalcato da coloro che si adeguano più o meno inconsciamente alle regole sommerse e provocano, inconsciamente, una perdita incalcolabile per la ricerca. Quelli che i conti possono e devono farli sono, invece, i dipartimenti che finanziano la formazione di ragazzi che in realtà non hanno alcuna possibilità di entrare nel mondo accademico! In definitiva gli unici che terminano il bilancio senza passivo sono ancora una
volta i baroni per i quali è diventato più importante il prestigio accademico piuttosto che un ruolo di rilievo nel mondo scientifico.

venerdì 8 ottobre 2010

Studenti senza lussi (Bruna Larosa)

Che sia idillio o tormento il lavoro fa parte della vita di ognuno di noi:
anche la scelta di iscriversi all’Università è legata dalla speranza di crearsi
una prospettiva lavorativa migliore. In un momento in cui l’occupazione
languisce, però, c’è una fetta della popolazione che si districa tra contratti
a termine e a progetto. Sono gli studenti universitari che, complice la crisi,
per ammortizzare le spese delle famiglie o per continuare ad aiutarle nelle
loro attività, accostano agli studi un lavoro. Spesso ci si occupa di impieghi
ben diversi da quelli che si sognano e tutta la differenza tra le teorie e la
pratica vengono alla luce provocando disillusione e, talvolta, amarezza. Ma
cosa significa lavorare e studiare? Ne abbiamo parlato con Francesca Andreani e
Francesco Alessio, la prima continua ad aiutare nell’attività di famiglia, il
secondo, ha proprio cercato lavoro a Cosenza dove sta portando avanti i suoi
studi.

Cosa significa accostare all’attività di studio una lavorativa?
Francesca Lavorare e studiare può sembrare semplice, ma presuppone grossi
sacrifici e, allo stesso tempo ti aiuta a crescere e a responsabilizzarti.
Ovviamente c’è la consapevolezza che si debbono fare molte rinunce, ma è
bellissima la sensazione di riuscire bene in entrambe le cose.
Francesco Lavorare e studiare comporta un duplice impegno e una costante
organizzazione: bisogna far fronte a due realtà, per così dire, complementari e
contrapposte. Generalmente si pensa che il lavoro sia qualcosa ‘a parte’
rispetto lo studio, invece dato che il lavoro dello studente è studiare
probabilmente sarebbe più corretto pensare che quando si accosta all’Università
un impiego si fanno ben due lavori!!

Ci sono dei motivi specifici per cui avete deciso di fare questa scelta?
Francesca La mia è stata una scelta naturale: ho sempre aiutato i miei nell’
attività di famiglia e non ho certo pensato di lasciar perdere una volta
iscritta all’università!
Francesco Ho deciso di accostare studio e lavoro sia per motivi economici, sia
per cimentarmi in un’esperienza lavorativa che, oggi come oggi, sembra contare
anche più dei titoli posseduti! Ho seguito la saggezza popolare e mi son detto:
‘impara l'arte e mettila da parte’!

Portare avanti questi due impegni, spesso non complementari, vi ha impedito di
avere la caratteristica spensieratezza degli universitari?
Francesca Sicuramente non mi ha impedito di stringere tante nuove amicizie
quanto, invece, non mi dà l’opportunità di avere la spensieratezza di una
‘semplice’ studentessa.
Francesco Si! Lavorare e studiare occupa gran parte della giornata e, anche
quando si ha un giorno libero, lo si dedica allo studio per recuperare il tempo
impiegato sul lavoro!

Ci sono studenti che si occupano solo dell’Università ed altri, come voi, che
portano avanti un lavoro che spesso differisce da ciò che si studia e da ciò
che si desidera per il futuro. Credete che i ragazzi non impegnati sul lavoro
abbiano una marcia in più all’Università rispetto a chi deve dividersi tra
studio e impiego?
Francesca Effettivamente ci sono dei momenti più duri, spesso quando preparo gli
esami penso che da ‘semplice’ studentessa sarei facilitata. Credo, però, che
quando si ha in mente un obiettivo e si desidera davvero raggiungere dei
risultati la concentrazione e la costanza siano al massimo sia per chi ha
impegni lavorativi che per gli studenti.
Francesco Purtroppo, quando si lavora, anche impegnandosi molto, ci si trova
sempre un po’ svantaggiati: non si ha mai il tempo per approfondire o per
ripetere una volta di più. Penso, quindi, che le persone che si dedichino
interamente allo studio abbiano una marcia in più e possano fare davvero tanto.


Pubblicato su MezzoEuro n.39  in edicola dal 2 ottobre 2010

domenica 3 ottobre 2010

Bellezze da gustare (Bruna Larosa)

Nel Parco del Pollino, tra natura, paesaggi e cultura si fa spazio anche un progetto di agricoltura ecocompatibile a sostegno del territorio

Il fiume Lao scorre frizzante e cristallino mentre il profumo intenso del sottobosco e i giochi di luce ed ombra tra gli aghi di pino offrono scenari quasi fiabeschi. Il Parco Nazionale del Pollino racchiude uno dei territori più suggestivi ed interessanti d’Italia, tanto da attirare ormai da ogni parte un turismo consapevole e attento allo spettacolo della natura. È interessante sapere, però, che nel rispetto del patrimonio naturale, è possibile creare e sperimentare anche modelli di sviluppo eco-compatibili del territorio. È Luigi Gallo, del Centro di Divulgazione Agricola n. 2 dell’Arssa (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e per i Servizi in Agricoltura) di Castrovillari, che ci illustra in dettaglio le possibilità offerte dalle nuove frontiere produttive in un ambiente praticamente incontaminato. Da circa venti anni – ci informa Gallo - l’Agenzia ha investito sul territorio con i servizi di assistenza tecnica e divulgazione agricola, al fine di accostare alle colture tradizionali della zona del Parco, per lo più in asciutto, delle nuove coltivazioni irrigue, utilizzando il completamento degli impianti per l’irrigazione, realizzati dal Consorzio di bonifica integrale dei Bacini Settentrionali del Cosentino. Attualmente, l’area di nuova irrigazione, ricadente nei comuni di Mormanno, Laino Castello e Laino Borgo, raggiunge un’estensione di circa duemila ettari mentre il sistema dell’irrigazione a goccia consente un utilizzo davvero razionale dell’acqua irrigua. È da questo progetto che nascono le coltivazioni di fagiolo borlotto ceroso nano, fagiolo borlotto ceroso rampicante, fagiolo bianco ceroso rampicante, oltre a quelle di zucchino, pomodoro, ed al prezioso recupero di due colture, prima a rischio di estinzione: il fagiolo poverello bianco e la lenticchia di Mormanno. Questi tipi di colture ben si armonizzano con le nuove, particolari esigenze dei consumatori, oggi sempre più attenti ad acquistare prodotti che non abbiano subìto dei trattamenti che possono alterarne le qualità. In effetti, le caratteristiche di questi cibi incontrano il desiderio di nutrirsi in maniera sana e naturale in quanto la loro produzione, all’interno di un’area protett, fa sì che siano genuini, poiché prodotti con il minimo o in totale assenza di prodotti chimici di sintesi, e gustosi, senza trascurare l’enfasi di provare il sapore delle bellezze del Parco! La distribuzione di tali prodotti  -continua Gallo - avviene su scala locale, all’interno del Parco stesso, nel resto della regione, soprattutto nelle località balneari più vicine al territorio del Pollino e in alcune zone della Campania. Molto interessanti, poi, le prospettive occupazionali, anche per i giovani; la coltivazione di questi ortaggi è estremamente semplice e non supera, per durata, i cinque mesi all’anno, rivelandosi una ghiotta occasione di integrazione del reddito. Se dal punto di vista sociale, l’iniziale sensibilizzazione ha portato alla nascita di alcune cooperative locali, è dal punto di vista economico che si rivela il potere e la lungimiranza del progetto. La redditività è davvero alta, perché in molti casi è lo stesso coltivatore che espleta da sé l’intero ciclo produttivo; ciò unito al basso investimento iniziale, rende i guadagni davvero soddisfacenti. Dal confronto tra questo piccolo sistema economico con quello della vicina Piana di Sibari si può evidenziare come, alcune tra le colture più diffuse della Sibaritide, cioè pesche e clementine, permettano un guadagno di circa 3000 euro/ha, mentre l’orticoltura tipica del Pollino dai 5000 ai 10000 euro/ha, delineando ancor di più l’opportunità che il Parco è in grado di offrire. Scopriamo così che accanto alle belle leggende che da sempre accompagnano l’uomo e i boschi, popolate da eroi, briganti, folletti e magie si apre lo spiraglio anche per una positiva realtà, tutta da conoscere e toccare con mano.


Pubblicato sulla rivista Klichè n° 29

lunedì 27 settembre 2010

Quando si convive con i baroni (Bruna Larosa)

Il silenzio irreale della concentrazione, le pagine del libro che scorrono sotto gli occhi seri e mai stanchi dei dottorandi, la sera che si fa notte e la passione, l’abnegazione per lo studio che non tramonta. Per alcuni la spinta verso la conoscenza ha l’intensità che ebbero le colonne d’Ercole nell’
immaginario dantesco costruito per Ulisse: l’irresistibile meta cui vale la pena dedicare e sacrificare tutta la vita. In questo scenario di costante impegno e passione qualche giorno fa a Palermo un dottorando in filosofia è morto gettandosi dalla finestra della sua facoltà. Un gesto estremo che nella
sua irreparabile tragicità rende tangibile il sacrificio di anima e corpo di una vita dedicata all’amore per lo studio.

Ma il mondo del dottorato spesso bistrattato tra accademici interessati e disinteressati politici come vive la sua quotidianità? La parola a Domenico Frascino e Francesco Lo Giudice, che stanno vivendo questa impegnativa esperienza all’Unical con entusiasmo e un’innegabile ombra sul cuore.



Quando è maturata la volontà di voler tentare il dottorato di ricerca?

Domenico Avevo già pensato che avrei voluto approfondire e continuare i miei studi, durante il lavoro di tesi questa idea si è fatta sempre più insistente e così non mi sono fatto sfuggire l’occasione di partecipare al concorso. Al momento svolgo il dottorato in ingegneria dei sistemi e informatica.

Francesco Ho scelto di fare il dottorato di ricerca perché gli studi universitari mi son piaciuti molto. Mi hanno insegnato e donato tantissimo anche a livello umano. Ho maturato, quindi, la convinzione che non avrei potuto abbandonare lo studio, anzi ne avrei dovuto fare, se possibile, una professione. Ho scelto così di intraprendere la carriera accademica, partendo dal provare a vincere il dottorato di ricerca. Attualmente sto svolgendo un dottorato in sociologia politica.

Come sta vivendo questa esperienza e come si trova?

Domenico Molto bene: l’esperienza di dottorato che sto svolgendo accosta all’attività di ricerca anche alcune ore di didattica. Sia l’una che l’altra occupazione sono interessanti ma anche molto impegnative e mi aiutano a rendermi conto giorno per giorno di cosa significhi la vita universitaria.

Francesco Il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica presso cui svolgo il dottorato è organizzato molto bene e raccoglie decine di grandi professionisti, docenti e ricercatori di notevole spessore umano e professionale. A differenza di ciò che accade altrove, qui da noi, probabilmente complice l’aver strutturato l’Ateneo come un campus, docenti e studenti interagiscono molto facilmente. Ciò accade anche tra noi dottorandi e i nostri tutor con i quali c’è un’interazione reciproca, segno di grande disponibilità. Qualche disagio lo vive chi, come me, avendo vinto il dottorato di ricerca senza borsa di studio, e quindi senza retribuzione economica, svolge attività di collaborazione remunerate per potersi guadagnare da vivere. Così facendo, però, sottrae tempo ed energia all’attività di ricerca scientifica
vera e propria.

Di recente un grave fatto di cronaca ha toccato il suo ambiente: un dottorando scoraggiato dalle prospettive lavorative ha deciso di togliersi la vita, qualche considerazione in merito?

Domenico Ho provato sgomento e tristezza come ogni volta che vengo a conoscenza di situazioni in cui delle persone arrivano a togliersi la vita per protesta, un altro esempio potrebbe essere quello di qualche mese fa in cui la ‘vittima’ è stata un’infermiera di Napoli. Il problema della mancanza di
prospettive è purtroppo diffuso in tutti gli ambienti occupazionali e va di pari passo ad un altro aspetto: lo "sfruttamento" di chi è giovane, ha risorse e idee, ma mai voce in capitolo. Tutta la nostra generazione, indipendentemente dal desiderio lavorativo che vuole provare ad attuare, è investita da un senso di ‘inadeguatezza’ e purtroppo ho la sensazione che l'attenzione dei media si accenda tiepidamente ed esclusivamente davanti a casi estremi come quello del collega Zarcone.

Francesco Questi solitamente sono atti inconsueti e drastici che derivano dall’intreccio di più situazioni di disagio di tipo personale e sociale. Tuttavia, la morte tragica di questo collega è indicativa di come la precarietà professionale si ripercuota negativamente e drammaticamente sulla vita quotidiana stessa, soprattutto per chi, dopo aver fatto tanti sacrifici per studiare e laurearsi in maniera brillante, per vincere concorsi e realizzarsi dignitosamente, si vede con un futuro incerto ed angosciante, costretto quasi a sentirsi in colpa per aver scelto di fare un mestiere di cui invece dovrebbe sentirsi onorato e andar fiero. Spero che la politica riesca a trovare subito una soluzione a questa fase storica del mercato del lavoro.

Un dottorato di ricerca apre sempre la strada alla carriera universitaria?

Domenico In teoria il dottorato è il primo passo per iniziare una carriera accademica, personalmente spero di riuscire a rimanere nell’ambiente universitario o comunque di ritagliare il mio posto nell’ambito della ricerca. In questo momento, però, per me, preferisco non guardare troppo oltre, penso mi distrarrebbe ed è necessario concentrarmi sull’oggi.

Francesco Il dottorato è una tappa importante per poter intraprendere la carriera universitaria, un’ottima occasione per verificare la propria attitudine alla ricerca scientifica, ma non è certo sufficiente alla carriera! Dopo il dottorato ci sono altri concorsi e prove da superare per diventare professori. Alcuni dottori di ricerca rinunciano a proseguire la carriera perché nel frattempo intravedono altri sbocchi professionali, sia in modo volontario, che indotti dal potere eccessivo di alcuni docenti universitari, i
cosiddetti ‘baroni’, che decidono il futuro dei giovani all’interno dell’accademia universitaria. 


Pubblicato sul numero 38 di MezzoEuro in edicola dal 25 settembre 2010

mercoledì 22 settembre 2010

C'è chi resta e chi va via (Bruna Larosa)

Laurea in tasca e valigia in mano, questa la fotografia che scatta l’agenzia Svimez riguardo i giovani del Meridione: sono moltissimi e per lo più laureati, quelli che si spostano dalla loro terra per cercare fortuna altrove. Il lavoro al Sud è una sorta di Sacro Graal, e paradossalmente la ricerca risulta molto più problematica per i ‘dottori’. Molti partono armati di buona volontà, altri restano, ma qual è il futuro che si prospetta per chi ha la tenacia di partire e per chi ha la forza di rimanere? I laureati che partono, informa sempre lo Svimez, approdano nelle regioni del Centro Nord e sono generalmente giovani uomini. Vanno per lo più incontro ad uno stipendio migliore, ma, al tempo stesso, a contratti meno stabili nel breve periodo rispetto al Sud. Nel lungo periodo lo stipendio aumenta ulteriormente e anche la posizione lavorativa migliora, stabilizzandosi. Viceversa chi resta è prevalentemente donna, rimarrà più tempo disoccupato, avrà un contratto più sicuro, ma uno stipendio di gran lunga più basso anche nel lungo periodo. Dalla statistica alla realtà: abbiamo parlato con due figlie di Calabria, giovani, laureate e donne. Valentina e Francesca hanno la stessa età, lo stesso livello di istruzione, dopo la laurea entrambe hanno cercato fortuna nella loro regione, poi, una ha scelto di partire, l’altra di rimanere. Mentre la prima ci racconta di aver provato ad inserirsi nel mondo del lavoro in Calabria, ma di non aver trovato soddisfazione così da andar via, la seconda parla di un’esperienza di lotta che continua ancora oggi. Bisogna essere più che migliori, bisogna vivere ai limiti dell’insistenza per farsi notare. Entrambe si sono scontrate con una realtà oltre che difficile, ostile: spesso non sono i migliori ad andare avanti, ma chi ha dalla sua le conoscenze giuste. Valentina dopo dei contratti a progetto ha cominciato a inviare i CV fuori dai confini regionali, ha preparato la valigia ed oggi lavora con un contratto stabile nei pressi di Imola. ‘La Calabria è nel mio cuore, afferma, ma la realizzazione personale non può essere sottovalutata dopo aver tanto studiato!’. Francesca, invece, è ancora in bilico: un progetto di qua, un contratto di là, molta amarezza. ‘Vorrei fare tanto, ma non ho la possibilità di far nulla, mi impongo per quello che posso. Nonostante il tempo che passa non ho paura di fare la gavetta, solo non sono disposta a fare la fila ai call-center per potermi mantenere, quando in realtà tra un progetto e un’idea lavoro davvero e duramente per far fruttare la mia laurea!’. Due ragazze in gamba ma la loro storia fa sollevare un legittimo dubbio: che le Università del Meridione servano semplicemente ad accrescere il prestigio proprio e delle città in cui sorgono e poi costringano, nei fatti, i laureati a fare le valigie e andare lontano? Sul territorio calabrese esistono ben tre Università nonostante questa regione non riesca ad assorbire il numero di laureati che ‘produce’! Ciò provoca una netta perdita economica per questa terra, che prima forma i suoi figli, investe nella loro formazione, ma non offrendo possibilità lavorative li cede a costo zero ad altre zone del Paese. In termini economici si tratta di un continuo investimento a perdere! Avviene anche un danno di tipo diverso: la creatività, la volontà di fare, la voglia di emergere e migliorare tipica dei giovani sono le preziose caratteristiche che potrebbero fare grandi il Sud e la Calabria. Il condizionale è d’obbligo: ‘potrebbero’ fare grande la Calabria, infatti, queste ricchezze incommensurabili si è costretti a impiegarle altrove per riuscire a realizzarsi nel lavoro e creare un progetto di vita che superi la durata di un contratto co.co.pro. .

Pubblicato su MezzoEuro n. 28

Lucio Dalla-Piazza Grande

Convivenze non sempre idilliache (Bruna Larosa)

La convivenza universitaria può essere un’esperienza bellissima o rivelarsi
una bomba ad orologeria, molto dipende dai compagni di viaggio di questo
periodo della vita spesso difficile, ma al tempo stesso entusiasmante. Non è
facile convivere con altre persone, anche se si è con coetanei e nonostante si
affrontino gli stessi problemi e le stesse incertezze. Abitudini e impegni
diversi sfociano in una tangibile intolleranza e le tensioni, anche gravi, che
si verificano possono compromettere fortemente l’andamento equilibrato e sereno
della vita universitaria. Hanno voluto condividere con noi la loro esperienza
Barbara e Rossella: le loro parole ci apriranno due realtà parallele e
profondamente diverse, capaci di suscitare indignazione, simpatia e certamente
di farci riflettere su quanto possa essere arduo ed esaltante convivere. 

Come mai ha preso casa all’università?
Barbara Ho preso in affitto un posto letto a Cosenza per comodità: viaggiare tutti
i giorni è stancante sebbene non abiti poi così lontano, essendo di Paola.
Rossella Per comodità, ma anche perché avevo voglia di vivere una nuova esperienza.

Quante eravate in casa?
Barbara La casa aveva cinque posti letto, ma eravamo in quattro, io occupavo un
posto letto in doppia.
Rossella Eravamo sei ragazze in tutto.

Come è stato il rapporto con le altre ragazze?
Barbara All’inizio tutto sembra molto bello e avvincente: torni a casa e ti trovi
con delle coetanee con cui condividere la tua giornata... È la sensazione più
bella che io abbia mai vissuto, inizi a credere davvero a un’amicizia assoluta,
si può parlare giorno e notte e raccontarsi tutto! Ma questo entusiasmo si
spegne in fretta, anzi, le difficoltà sono proprio dietro l’angolo. L’invidia,
la gelosia, una bocciatura in più trasformano presto le cose ed è triste che
basti così poco a turbare un bel clima.
Rossella Mi sono trovata davvero molto bene: sono stata fortunata ho trovato
coinquiline con la quale oltre ad una semplice convivenza si è creata un'ottima
amicizia. Ho ancora contatti con tutte loro, anche con quelle che hanno
terminato gli studi ed è sempre bello rivedersi e ritrovarsi!

Conoscere le altre ragazze prima, magari cercare un appartamento insieme,
mette al riparo dal rischio di trovarsi male?
Barbara Non credo che conoscere o meno le altre ragazze faccia davvero la
differenza: tante volte si crede di conoscere qualcuno, invece, poi, è una
persona completamente diversa e il rischio in più che si corre è di rimanere
ancora più delusi…
Rossella Meglio non conoscere in anticipo le coinquiline: possono spezzarsi i legami
più forti perché anche per due amiche inseparabili il cambiamento di vita è
fortissimo.

Stare bene in casa corrisponde ad una maggiore serenità nella vita
universitaria? Cosa ne pensa?
Barbara Tutto è collegato! Nel momento in cui è cominciato a declinare il rapporto
con le altre si è creata come una cappa in casa, ciò ha provocato tantissimo
stress. Quello che più mi ha fatto soffrire è stato il fatto che è iniziato una
specie di gioco a eliminazione: si sceglie il capro espiatorio e tutte le
coinquiline si alleano contro la malcapitata: qualsiasi cosa faccia è sempre
sbagliata, ogni atteggiamento viene frainteso. La vita diventa insostenibile,
almeno questa è stata la mia esperienza!
Rossella Certo! Ho vissuto una bella esperienza appunto perché si viveva bene in
casa, sono sicura che se si fosse sviluppata dell’insofferenza tra me e le
altre anche gli studi ne avrebbero risentito!

Quali crede che siano i segreti di una convivenza piacevole: bisogna tollerare
o farsi valere?
Barbara Non credo che ci siano segreti, credo che la chiave di tutto siano rispetto
ed educazione, ma purtroppo non sono cose che si trovano al mercato. Prima
credevo che fosse utile chiarire a tutti i costi, poi mi sono resa conto che
dipende dalle persone con cui si è a contatto: con alcune non ne vale proprio
la pena!
Rossella I segreti di una convivenza piacevole sono in primis il rispetto e la
disponibilità. Bisogna cercare il giusto compromesso per evitare litigi e
vivere, quindi, in serenità. La pazienza aiuta moltissimo e a mio avviso
bisogna essere molto tolleranti, ma anche farsi valere al momento giusto.

Come valuta la sua esperienza complessivamente?
Barbara La convivenza universitaria mi ha ‘fatto le ossa’ e mi ha preparato ad
affrontare la vita in maniera disillusa e realistica, all’università si cresce
in tutto e per tutto: per quanto male facciano tutte le batoste che ho preso
sono contenta di ciò che sono adesso!
Rossella Un’esperienza davvero bella, ma ripeto: ne ho sentite di cotte e di crude,
ribadisco, quindi, che sono stata fortunata a incontrare delle coinquiline con
le quali si è creata un’amicizia vera!



Pubblicato sul numero 37 di MezzoEuro del 18 Settembre 2010

lunedì 13 settembre 2010

Studenti vado e torno (Bruna Larosa)

Lo scopo dell’Erasmus e di tutti gli altri progetti che propongono un periodo di studio all’estero è quello di misurarsi col mondo, mentre la globalizzazione interseca le differenze innate in un puzzle che vede tutte le nazioni partecipi di un medesimo disegno. Le Università, quali istituti di formazione, tracciano percorsi e gemellaggi per proporre ai propri studenti dei periodi di studio nelle altre nazioni e ogni anno la richiesta di partecipazione è sempre maggiore. Succede questo in ogni università della nostra regione e sono molti gli studenti che ci pensano e tanti quelli che partono davvero. Abbiamo ripercorso questa esperienza di vita e formazione con Marta, laureanda in Scienze Politiche presso l’Unical, che ha vissuto il suo periodo di studio in Spagna, presso l’Università di Santiago de Compostela.

Perché ha deciso di partire e come è stata la sua esperienza?
Ho deciso di partire perché questo tipo di esperienza mi incuriosiva, è stata una vera e propria sfida: volevo vivere sulla mia pelle, capire come si vive altrove. È stata senza alcun dubbio un periodo bellissimo e al tempo stesso formativo in cui ho conosciuto tanti altri ragazzi provenienti da altri paesi europei che come me avevano scelto di partire. L’Erasmus ti fa crescere e maturare molto facendoti capire i tuoi limiti e lasciandoti molta gioia nel cuore.

Andare all’Estero significa anche confrontarsi con una lingua che non è la propria. Come è stato questo impatto?
All’inizio è stato difficile, ogni volta che qualcuno mi parlava avevo le orecchie tese per cercare di capire al meglio quanto mi stesse dicendo. In realtà non è, poi, necessario conoscere un vastissimo vocabolario, almeno i primi tempi si va molto ‘a senso’ e con l’intuito si capisce e si apprende molto di più di quanto si riesca con il dizionario in mano. Non è stato facile, ma poi, spontaneamente l’intuito è venuto in mio aiuto. A stare in mezzo a persone che parlano tutte una lingua diversa dalla tua si impara molto velocemente!

Intraprendere un percorso di studi all’Estero presuppone che si prenda casa presso l’Università di destinazione, lei come si è orientata?
Ci sono molte agenzie che offrono servizi specifici per gli studenti, basta spiegare la situazione, dire che si è Erasmus e il tempo di permanenza e loro avviano la ricerca sul posto per te. Nelle università, poi, si sono annunci proprio per gli studenti Erasmus, cosa che qui non è molto diffusa, poiché avere uno studente straniero in casa significa accogliere una persona con abitudini diverse ed esigenze differenti da quelle contrattuali che siamo abituati a vedere.

Qual è il sentimento che l’ha accompagnata in questa esperienza?
L’esaltazione e la nostalgia. Gli affetti mancano, moltissimo, ma si è presi dalla frenesia del voler vivere l’esperienza fino in fondo…

Affrontare gli studi fuori significa, anche, sostenere gli esami, come ha vissuto la sessione di verifica lontano dalla sua Università?
Con calma e concentrazione, molta più di quella che ho impiegato qui studiando sui libri scritti nella mia lingua. I docenti sono sempre stati molto attenti e comprensivi, mi hanno dato il tempo e mi hanno incentivato: capiscono la difficoltà di esprimersi e studiare in una lingua che non è la propria! Fortunatamente, poi gli esami si fanno dopo un paio di mesi di permanenza sul posto.

Qual è il valore aggiunto che ritraccia e che attribuisce all’Erasmus nella sua formazione?
Questa esperienza mi ha dato la possibilità di accrescere il mio bagaglio personale. Sia per la quantità di persone che ho conosciuto, sia per i diversi modi di vivere con cui sono entrata a contatto. Poi la stessa Galicia è contaminata dai costumi portoghesi data la vicinanza geografica con quest’altra nazione.

In definita questa è un’esperienza che consiglia ad altri studenti?
Consiglio vivamente a tutti di fare un periodo di studi all’estero poiché questa è un’esperienza che ti fa crescere, che ti fa vivere con persone provenienti da ogni parte del mondo. Solo così si riesce a capire che i confini in realtà non esistono, sono per lo più barriere mentali che ci costruiamo noi. Il confronto costante, poi, ti fa diventare una persona completamente nuova e certamente più pronta ad affrontare la vita.


Pubblicato sul n. 36 di Mezzo Euro in edicola dal 11/09/2010

lunedì 6 settembre 2010

A muso duro (Bruna Larosa)

Non solo avvocati, medici e ingegneri, nella nostra regione lo spirito
pulsante dell’arte coinvolge intere schiere di ragazze e ragazzi che,
coltivando con studio e dedizione le loro passioni, affollano i conservatori presenti nelle diverse province. Ma cosa significa coltivare un’arte come il canto e la musica in una realtà che si scontra tutti i giorni con problematiche gravi e lontane dalle belle arti? Ne abbiamo parlato con Domenico Barreca, già noto nella piana di Gioia Tauro come giovane talento del canto.

Qual è il suo sogno e cosa fa per coltivarlo?
Il mio sogno è legato alla musica: la compagna perfetta, grazie alla quale ho potuto vivere emozioni indescrivibili.. Nel futuro vorrei vivere di musica il che, per me, non significa per forza diventare un cantante famoso, ma svolgere un qualsiasi ruolo nel panorama musicale! Al momento sono iscritto al corso di canto jazz al conservatorio "S. Giacomantonio" di Cosenza. Quello del jazz è uno studio molto complesso, e sebbene lo abbia intrapreso solo da qualche anno mi sta dando veramente tanto,affascinandomi ogni giorno di più! Sempre a Cosenza studio canto moderno con Rosa Martirano, un'artista straordinaria e allo stesso tempo una persona che dal punto di vista musicale e umano non smetterò mai di ringraziare.

Un sogno così grande può essere penalizzato dalla regione in cui viviamo?
Io sono calabrese e sogno di poter rimanere nella mia terra pur facendo
musica, nonostante ciò, con il passare degli anni aumenta la consapevolezza di quanto ciò sia difficile. Quando penso alla Calabria la prima cosa che mi viene in mente è che mancano delle strutture per poter fare arte! La cosa che mi fa più rabbia, poi, è che pur essendoci artisti straordinari nella nostra terra li costringiamo a scegliere tra l’emigrazione e l’anonimato. La Calabria, indubbiamente, ha problemi ben più gravi a cui pensare, ma a parte qualche eccezione (ad esempio l’esperienza del promoter Ruggero Pegna che, tra mille difficoltà, ha dato tantissimo, anche dal punto di vista culturale, a questa regione) l'arte non vive di una reale considerazione, vuoi per incompetenza o inconsapevolezza. Mi domando perché, ad esempio, sul nostro territorio vengano preferiti i bellocci di turno e non gli artisti di qualità che vi vivono. Poi mi rendo conto che le persone non sono educate ad uno spettacolo di tipo diverso e seguono eventi che possiamo definire puramente ‘commerciali’ piuttosto che altri. Per questo è difficile cambiare le cose!

Lei parla di difficoltà eppure negli ultimi anni, complici vari show (talent o reality), sembra che le luci della ribalta siano più accessibili…
Per quel poco che ho potuto vedere so che prima di proporsi nel mondo dello
spettacolo c’è gente che studia anni e anni nelle varie accademie, investendo anche una notevole quantità di denaro ed infine, si trova costretta a dover dar spazio ai partecipanti di questo o quel reality arrivando a rinunciare al proprio sogno. Credo che questo sia l’effetto di un pubblico che sceglie di seguire quel tipo di programma, insomma, un problema di educazione ai media, come dicevo prima. Per quanto riguarda i talent show spezzo una lancia a favore dei ragazzi che vi partecipano, sicuramente avranno del talento e delle capacità, tuttavia, osservando la cosa da spettatore ritengo che il problema sia nella struttura del programma, in quanto spesso si ha l’impressione che tutto sia studiato a tavolino senza badare alla qualità della musica o dell’artista, ma al guadagno! Allo stato di fatto ad essere danneggiati sono ancora una volta i ragazzi che studiano nei conservatori e poi vengono scavallati per questioni di audience e notorietà.

Se potesse avanzare una proposta a chi di dovere per migliorare le cose nella nostra regione cosa diresti?
Il problema dell’arte riguarda tutta l’Italia, paradossalmente non viene
considerata un patrimonio culturale! Solo per fare un esempio il musicista in generale viene etichettato come un fannullone! Posso, invece, assicurare che studiare musica comporta tanti sacrifici e rinunce, ore ed ore di studio giornaliero. Sarebbe bello se un giorno non troppo lontano chi di competenza possa tutelare l'artista. Anche, ad esempio, sovvenzionando gli studi per chi frequenta i conservatori e le accademie, come succede in molte altre nazioni... Spero anche che i discografici la smettano di produrre musica usa e getta che tornino nei club, nelle cantine, nei locali perché lì, loro lo sanno bene, c'è il vero artista!!! Vista la situazione in cui versiamo un cambiamento è difficile, ma da sognatore incallito continuo a crederci.

C’è un motto una frase che la guida per descrivere la realtà che vive con i suoi colleghi?
La frase che considero il manifesto per chi vuole fare arte con il cuore è
quella di Pierangelo Bertoli della splendida ‘A muso Duro’: "canterò le mie
canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro un guerriero senza
patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro".


Pubblicato sul numero 32-35 4 settembre 2010 di MezzoEuro

domenica 5 settembre 2010

Pigotte in mostra per il ventennale (Bruna Larosa)

Il Comitato provinciale dell’Unicef di Cosenza ha scelto di celebrare il ventennale della Convenzione per i Diritti dell’Infanzia con un’iniziativa di sensibilizzazione molto interessante e di forte impatto: una mostra –istallazione di pittura e pigotte realizzate da Stefania Siragusa. I contributi raccolti saranno devoluti al Progetto ‘Protezione dei Bambini di strada in Bangladesh’, un piano che intende aiutare l’infanzia in un Paese in cui le condizioni precarie di vita hanno portato ad accettare l’immagine del bambino lavoratore come una circostanza positiva nella vita del minore.

Abbiamo incontrato Stefania Siragusa ed il critico d’arte Paolo Aita.
Quando si parla di un’artista generalmente si pensa ad una persona estrosa, magari anche eccessiva, invece Stefania è una donna simpatica, spigliata e molto disponibile e gentile, accoglie con un sorriso ogni domanda che le viene posta e cerca di rispondere con la semplicità e la chiarezza di chi ha le idee chiare e vuole arrivare a tutti. È un’artista dell’eteronimia, quella forma d’arte che accoglie gli ‘insegnamenti letterari’ di Pirandello e Pessoa, o il lascito filosofico di Nietzsche. L’artista, segue le sue diverse maschere, a mo’ dell’Uno, Nessuno e Centomila e cedendo a queste sfaccettature riesce ad aprirsi e a creare delle opere originali, ascoltando la sensibilità e le voci che rintraccia in se stesso.
Gli artisti sono persone che hanno una profonda sensibilità, ci sono quelli che la vivono dal punto di vista intimistico, altri invece che la orientano verso tematiche sociali…

Come è nato il suo rapporto con l’Unicef?
Sono sempre sensibile ai problemi sociali che davvero sono stati sempre tantissimi. Sono sempre stata attenta alle necessità dell’infanzia perché i bambini sono i soggetti più indifesi così come, anche, gli anziani, le persone sofferenti e quelle che hanno bisogno degli altri. Siccome volevo fare qualcosa per i bambini ho conosciuto Emanuela (De Cicco, volontaria presso la Sede di Cosenza, ndr) e Paola (Bianchi, presidente del Comitato Unicef Cosenza, ndr) che mi hanno proposto di realizzare delle ‘Pigotte d’artista’. Ho accolto con entusiasmo questa idea anche perché mi piace molto creare delle opere, sperimentare sui materiali, cucire, toccare con mano e mettermi alla prova.

L’Unicef lotta perché nessun bambino debba trovarsi nella condizione di crescere troppo in fretta, a tal proposito mi ha colpito l’espressione: ‘sana incoscienza dei bambini’, può darci una sua definizione?
I bambini sono esseri ingenui e genuini, non sono scaltri rispetto ai problemi della vita e siamo noi adulti che dobbiamo insegnare loro delle cose e questo è un aspetto meraviglioso dell’esistenza. Solo immedesimandosi nell’altro, nel fanciullo si riescono a capire alcune cose, dei punti di vista dei meccanismi.

Cosa si aspetta dalla giornata di domani?
Cerco di non crearmi aspettative, certo vorrei il meglio, e anche una vendita cospicua di quadri, perché il mio desiderio è di contribuire il più possibile a questo progetto molto importante.

Abbiamo scambiato qualche battuta anche con il critico
In genere l’arte è un fine, in questo caso l’arte è il mezzo per un nobilissimo scopo, lei da critico come osserva ciò?
Questo è il problema del rapporto dell’arte e della committenza, non c’è più quell’atteggiamento di pura e semplice celebrazione che c’era in altre epoche. Il problema è quello di vedere l’arte come pura, che parli di assoluti facendo astrazione del tempo, dello spazio e di altri elementi in confronto ad un’altra arte che cerca di sporcarsi le mani in problematiche fortissime e vivissime. Ci sono artisti che fanno arte con le problematiche, sono impegnati, altri che possiamo definire teorici. Non si può certo dire che ci sia bisogno più di un atteggiamento rispetto all’altro, in quanto se non c’è una condotta teorica non si forgia la sensibilità per avere orecchio, se non c’è la disponibilità di sporcarsi le mani non abbiamo neppure la disposizione a risolvere i problemi. Senz’altro Stefania appartiene al versante degli artisti facenti, non dimenticando che non possiamo considerare il ‘teorico e il facente’ atteggiamenti puri, ma categorie tagliate un po’, anche perché un artista nel corso della sua vita realizza opere differenti.

Cosa pensa del lavorare per la causa dell’Unicef?
Certamente lavorare per una causa così nobile come questa dell’Unicef ci dà molto piacere e ci offre la possibilità di fare qualcosa di concreto. Non è l’Unicef che ha bisogno di noi, ma noi dell’Unicef. Sono due secoli che gli intellettuali si interrogano su come agire e fare cose positive per tutti. Non c’è una risposta a questa domanda… Sapere di fare qualcosa che aiuta della gente a stare meglio per noi è estremamente positivo. È chiudere con una serie di rovelli teorici, mentali che rappresentano almeno in parte il mondo della cultura che tante volte ha fatto errori grossolani, nonostante il supporto di tanti testi e di tanta esperienza.

Cosa si aspetta dall’apertura al pubblico della mostra e dei discorsi che verranno tenuti a proposito?
Mi aspetto un’interrogazione, una sensibilizzazione da parte di tutti e a 360° sia per la capacità di ascolto per quel che riguarda il punto di vista culturale, che per le cose più pratiche la cui esperienza proviene da persone, in questo caso i bambini, che non hanno davvero voce in capitolo.


Pubblicato sul numero 48 di MezzoEuro del 28 Novembre 2009