Un Blog per proporre alcuni tra gli articoli che considero più belli tra quelli che ho scritto finora, sperando di onorare il lavoro del Giornalista che informa, intrattiene, suscita dibattito e opinioni. B.L.

lunedì 27 settembre 2010

Quando si convive con i baroni (Bruna Larosa)

Il silenzio irreale della concentrazione, le pagine del libro che scorrono sotto gli occhi seri e mai stanchi dei dottorandi, la sera che si fa notte e la passione, l’abnegazione per lo studio che non tramonta. Per alcuni la spinta verso la conoscenza ha l’intensità che ebbero le colonne d’Ercole nell’
immaginario dantesco costruito per Ulisse: l’irresistibile meta cui vale la pena dedicare e sacrificare tutta la vita. In questo scenario di costante impegno e passione qualche giorno fa a Palermo un dottorando in filosofia è morto gettandosi dalla finestra della sua facoltà. Un gesto estremo che nella
sua irreparabile tragicità rende tangibile il sacrificio di anima e corpo di una vita dedicata all’amore per lo studio.

Ma il mondo del dottorato spesso bistrattato tra accademici interessati e disinteressati politici come vive la sua quotidianità? La parola a Domenico Frascino e Francesco Lo Giudice, che stanno vivendo questa impegnativa esperienza all’Unical con entusiasmo e un’innegabile ombra sul cuore.



Quando è maturata la volontà di voler tentare il dottorato di ricerca?

Domenico Avevo già pensato che avrei voluto approfondire e continuare i miei studi, durante il lavoro di tesi questa idea si è fatta sempre più insistente e così non mi sono fatto sfuggire l’occasione di partecipare al concorso. Al momento svolgo il dottorato in ingegneria dei sistemi e informatica.

Francesco Ho scelto di fare il dottorato di ricerca perché gli studi universitari mi son piaciuti molto. Mi hanno insegnato e donato tantissimo anche a livello umano. Ho maturato, quindi, la convinzione che non avrei potuto abbandonare lo studio, anzi ne avrei dovuto fare, se possibile, una professione. Ho scelto così di intraprendere la carriera accademica, partendo dal provare a vincere il dottorato di ricerca. Attualmente sto svolgendo un dottorato in sociologia politica.

Come sta vivendo questa esperienza e come si trova?

Domenico Molto bene: l’esperienza di dottorato che sto svolgendo accosta all’attività di ricerca anche alcune ore di didattica. Sia l’una che l’altra occupazione sono interessanti ma anche molto impegnative e mi aiutano a rendermi conto giorno per giorno di cosa significhi la vita universitaria.

Francesco Il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica presso cui svolgo il dottorato è organizzato molto bene e raccoglie decine di grandi professionisti, docenti e ricercatori di notevole spessore umano e professionale. A differenza di ciò che accade altrove, qui da noi, probabilmente complice l’aver strutturato l’Ateneo come un campus, docenti e studenti interagiscono molto facilmente. Ciò accade anche tra noi dottorandi e i nostri tutor con i quali c’è un’interazione reciproca, segno di grande disponibilità. Qualche disagio lo vive chi, come me, avendo vinto il dottorato di ricerca senza borsa di studio, e quindi senza retribuzione economica, svolge attività di collaborazione remunerate per potersi guadagnare da vivere. Così facendo, però, sottrae tempo ed energia all’attività di ricerca scientifica
vera e propria.

Di recente un grave fatto di cronaca ha toccato il suo ambiente: un dottorando scoraggiato dalle prospettive lavorative ha deciso di togliersi la vita, qualche considerazione in merito?

Domenico Ho provato sgomento e tristezza come ogni volta che vengo a conoscenza di situazioni in cui delle persone arrivano a togliersi la vita per protesta, un altro esempio potrebbe essere quello di qualche mese fa in cui la ‘vittima’ è stata un’infermiera di Napoli. Il problema della mancanza di
prospettive è purtroppo diffuso in tutti gli ambienti occupazionali e va di pari passo ad un altro aspetto: lo "sfruttamento" di chi è giovane, ha risorse e idee, ma mai voce in capitolo. Tutta la nostra generazione, indipendentemente dal desiderio lavorativo che vuole provare ad attuare, è investita da un senso di ‘inadeguatezza’ e purtroppo ho la sensazione che l'attenzione dei media si accenda tiepidamente ed esclusivamente davanti a casi estremi come quello del collega Zarcone.

Francesco Questi solitamente sono atti inconsueti e drastici che derivano dall’intreccio di più situazioni di disagio di tipo personale e sociale. Tuttavia, la morte tragica di questo collega è indicativa di come la precarietà professionale si ripercuota negativamente e drammaticamente sulla vita quotidiana stessa, soprattutto per chi, dopo aver fatto tanti sacrifici per studiare e laurearsi in maniera brillante, per vincere concorsi e realizzarsi dignitosamente, si vede con un futuro incerto ed angosciante, costretto quasi a sentirsi in colpa per aver scelto di fare un mestiere di cui invece dovrebbe sentirsi onorato e andar fiero. Spero che la politica riesca a trovare subito una soluzione a questa fase storica del mercato del lavoro.

Un dottorato di ricerca apre sempre la strada alla carriera universitaria?

Domenico In teoria il dottorato è il primo passo per iniziare una carriera accademica, personalmente spero di riuscire a rimanere nell’ambiente universitario o comunque di ritagliare il mio posto nell’ambito della ricerca. In questo momento, però, per me, preferisco non guardare troppo oltre, penso mi distrarrebbe ed è necessario concentrarmi sull’oggi.

Francesco Il dottorato è una tappa importante per poter intraprendere la carriera universitaria, un’ottima occasione per verificare la propria attitudine alla ricerca scientifica, ma non è certo sufficiente alla carriera! Dopo il dottorato ci sono altri concorsi e prove da superare per diventare professori. Alcuni dottori di ricerca rinunciano a proseguire la carriera perché nel frattempo intravedono altri sbocchi professionali, sia in modo volontario, che indotti dal potere eccessivo di alcuni docenti universitari, i
cosiddetti ‘baroni’, che decidono il futuro dei giovani all’interno dell’accademia universitaria. 


Pubblicato sul numero 38 di MezzoEuro in edicola dal 25 settembre 2010

mercoledì 22 settembre 2010

C'è chi resta e chi va via (Bruna Larosa)

Laurea in tasca e valigia in mano, questa la fotografia che scatta l’agenzia Svimez riguardo i giovani del Meridione: sono moltissimi e per lo più laureati, quelli che si spostano dalla loro terra per cercare fortuna altrove. Il lavoro al Sud è una sorta di Sacro Graal, e paradossalmente la ricerca risulta molto più problematica per i ‘dottori’. Molti partono armati di buona volontà, altri restano, ma qual è il futuro che si prospetta per chi ha la tenacia di partire e per chi ha la forza di rimanere? I laureati che partono, informa sempre lo Svimez, approdano nelle regioni del Centro Nord e sono generalmente giovani uomini. Vanno per lo più incontro ad uno stipendio migliore, ma, al tempo stesso, a contratti meno stabili nel breve periodo rispetto al Sud. Nel lungo periodo lo stipendio aumenta ulteriormente e anche la posizione lavorativa migliora, stabilizzandosi. Viceversa chi resta è prevalentemente donna, rimarrà più tempo disoccupato, avrà un contratto più sicuro, ma uno stipendio di gran lunga più basso anche nel lungo periodo. Dalla statistica alla realtà: abbiamo parlato con due figlie di Calabria, giovani, laureate e donne. Valentina e Francesca hanno la stessa età, lo stesso livello di istruzione, dopo la laurea entrambe hanno cercato fortuna nella loro regione, poi, una ha scelto di partire, l’altra di rimanere. Mentre la prima ci racconta di aver provato ad inserirsi nel mondo del lavoro in Calabria, ma di non aver trovato soddisfazione così da andar via, la seconda parla di un’esperienza di lotta che continua ancora oggi. Bisogna essere più che migliori, bisogna vivere ai limiti dell’insistenza per farsi notare. Entrambe si sono scontrate con una realtà oltre che difficile, ostile: spesso non sono i migliori ad andare avanti, ma chi ha dalla sua le conoscenze giuste. Valentina dopo dei contratti a progetto ha cominciato a inviare i CV fuori dai confini regionali, ha preparato la valigia ed oggi lavora con un contratto stabile nei pressi di Imola. ‘La Calabria è nel mio cuore, afferma, ma la realizzazione personale non può essere sottovalutata dopo aver tanto studiato!’. Francesca, invece, è ancora in bilico: un progetto di qua, un contratto di là, molta amarezza. ‘Vorrei fare tanto, ma non ho la possibilità di far nulla, mi impongo per quello che posso. Nonostante il tempo che passa non ho paura di fare la gavetta, solo non sono disposta a fare la fila ai call-center per potermi mantenere, quando in realtà tra un progetto e un’idea lavoro davvero e duramente per far fruttare la mia laurea!’. Due ragazze in gamba ma la loro storia fa sollevare un legittimo dubbio: che le Università del Meridione servano semplicemente ad accrescere il prestigio proprio e delle città in cui sorgono e poi costringano, nei fatti, i laureati a fare le valigie e andare lontano? Sul territorio calabrese esistono ben tre Università nonostante questa regione non riesca ad assorbire il numero di laureati che ‘produce’! Ciò provoca una netta perdita economica per questa terra, che prima forma i suoi figli, investe nella loro formazione, ma non offrendo possibilità lavorative li cede a costo zero ad altre zone del Paese. In termini economici si tratta di un continuo investimento a perdere! Avviene anche un danno di tipo diverso: la creatività, la volontà di fare, la voglia di emergere e migliorare tipica dei giovani sono le preziose caratteristiche che potrebbero fare grandi il Sud e la Calabria. Il condizionale è d’obbligo: ‘potrebbero’ fare grande la Calabria, infatti, queste ricchezze incommensurabili si è costretti a impiegarle altrove per riuscire a realizzarsi nel lavoro e creare un progetto di vita che superi la durata di un contratto co.co.pro. .

Pubblicato su MezzoEuro n. 28

Lucio Dalla-Piazza Grande

Convivenze non sempre idilliache (Bruna Larosa)

La convivenza universitaria può essere un’esperienza bellissima o rivelarsi
una bomba ad orologeria, molto dipende dai compagni di viaggio di questo
periodo della vita spesso difficile, ma al tempo stesso entusiasmante. Non è
facile convivere con altre persone, anche se si è con coetanei e nonostante si
affrontino gli stessi problemi e le stesse incertezze. Abitudini e impegni
diversi sfociano in una tangibile intolleranza e le tensioni, anche gravi, che
si verificano possono compromettere fortemente l’andamento equilibrato e sereno
della vita universitaria. Hanno voluto condividere con noi la loro esperienza
Barbara e Rossella: le loro parole ci apriranno due realtà parallele e
profondamente diverse, capaci di suscitare indignazione, simpatia e certamente
di farci riflettere su quanto possa essere arduo ed esaltante convivere. 

Come mai ha preso casa all’università?
Barbara Ho preso in affitto un posto letto a Cosenza per comodità: viaggiare tutti
i giorni è stancante sebbene non abiti poi così lontano, essendo di Paola.
Rossella Per comodità, ma anche perché avevo voglia di vivere una nuova esperienza.

Quante eravate in casa?
Barbara La casa aveva cinque posti letto, ma eravamo in quattro, io occupavo un
posto letto in doppia.
Rossella Eravamo sei ragazze in tutto.

Come è stato il rapporto con le altre ragazze?
Barbara All’inizio tutto sembra molto bello e avvincente: torni a casa e ti trovi
con delle coetanee con cui condividere la tua giornata... È la sensazione più
bella che io abbia mai vissuto, inizi a credere davvero a un’amicizia assoluta,
si può parlare giorno e notte e raccontarsi tutto! Ma questo entusiasmo si
spegne in fretta, anzi, le difficoltà sono proprio dietro l’angolo. L’invidia,
la gelosia, una bocciatura in più trasformano presto le cose ed è triste che
basti così poco a turbare un bel clima.
Rossella Mi sono trovata davvero molto bene: sono stata fortunata ho trovato
coinquiline con la quale oltre ad una semplice convivenza si è creata un'ottima
amicizia. Ho ancora contatti con tutte loro, anche con quelle che hanno
terminato gli studi ed è sempre bello rivedersi e ritrovarsi!

Conoscere le altre ragazze prima, magari cercare un appartamento insieme,
mette al riparo dal rischio di trovarsi male?
Barbara Non credo che conoscere o meno le altre ragazze faccia davvero la
differenza: tante volte si crede di conoscere qualcuno, invece, poi, è una
persona completamente diversa e il rischio in più che si corre è di rimanere
ancora più delusi…
Rossella Meglio non conoscere in anticipo le coinquiline: possono spezzarsi i legami
più forti perché anche per due amiche inseparabili il cambiamento di vita è
fortissimo.

Stare bene in casa corrisponde ad una maggiore serenità nella vita
universitaria? Cosa ne pensa?
Barbara Tutto è collegato! Nel momento in cui è cominciato a declinare il rapporto
con le altre si è creata come una cappa in casa, ciò ha provocato tantissimo
stress. Quello che più mi ha fatto soffrire è stato il fatto che è iniziato una
specie di gioco a eliminazione: si sceglie il capro espiatorio e tutte le
coinquiline si alleano contro la malcapitata: qualsiasi cosa faccia è sempre
sbagliata, ogni atteggiamento viene frainteso. La vita diventa insostenibile,
almeno questa è stata la mia esperienza!
Rossella Certo! Ho vissuto una bella esperienza appunto perché si viveva bene in
casa, sono sicura che se si fosse sviluppata dell’insofferenza tra me e le
altre anche gli studi ne avrebbero risentito!

Quali crede che siano i segreti di una convivenza piacevole: bisogna tollerare
o farsi valere?
Barbara Non credo che ci siano segreti, credo che la chiave di tutto siano rispetto
ed educazione, ma purtroppo non sono cose che si trovano al mercato. Prima
credevo che fosse utile chiarire a tutti i costi, poi mi sono resa conto che
dipende dalle persone con cui si è a contatto: con alcune non ne vale proprio
la pena!
Rossella I segreti di una convivenza piacevole sono in primis il rispetto e la
disponibilità. Bisogna cercare il giusto compromesso per evitare litigi e
vivere, quindi, in serenità. La pazienza aiuta moltissimo e a mio avviso
bisogna essere molto tolleranti, ma anche farsi valere al momento giusto.

Come valuta la sua esperienza complessivamente?
Barbara La convivenza universitaria mi ha ‘fatto le ossa’ e mi ha preparato ad
affrontare la vita in maniera disillusa e realistica, all’università si cresce
in tutto e per tutto: per quanto male facciano tutte le batoste che ho preso
sono contenta di ciò che sono adesso!
Rossella Un’esperienza davvero bella, ma ripeto: ne ho sentite di cotte e di crude,
ribadisco, quindi, che sono stata fortunata a incontrare delle coinquiline con
le quali si è creata un’amicizia vera!



Pubblicato sul numero 37 di MezzoEuro del 18 Settembre 2010

lunedì 13 settembre 2010

Studenti vado e torno (Bruna Larosa)

Lo scopo dell’Erasmus e di tutti gli altri progetti che propongono un periodo di studio all’estero è quello di misurarsi col mondo, mentre la globalizzazione interseca le differenze innate in un puzzle che vede tutte le nazioni partecipi di un medesimo disegno. Le Università, quali istituti di formazione, tracciano percorsi e gemellaggi per proporre ai propri studenti dei periodi di studio nelle altre nazioni e ogni anno la richiesta di partecipazione è sempre maggiore. Succede questo in ogni università della nostra regione e sono molti gli studenti che ci pensano e tanti quelli che partono davvero. Abbiamo ripercorso questa esperienza di vita e formazione con Marta, laureanda in Scienze Politiche presso l’Unical, che ha vissuto il suo periodo di studio in Spagna, presso l’Università di Santiago de Compostela.

Perché ha deciso di partire e come è stata la sua esperienza?
Ho deciso di partire perché questo tipo di esperienza mi incuriosiva, è stata una vera e propria sfida: volevo vivere sulla mia pelle, capire come si vive altrove. È stata senza alcun dubbio un periodo bellissimo e al tempo stesso formativo in cui ho conosciuto tanti altri ragazzi provenienti da altri paesi europei che come me avevano scelto di partire. L’Erasmus ti fa crescere e maturare molto facendoti capire i tuoi limiti e lasciandoti molta gioia nel cuore.

Andare all’Estero significa anche confrontarsi con una lingua che non è la propria. Come è stato questo impatto?
All’inizio è stato difficile, ogni volta che qualcuno mi parlava avevo le orecchie tese per cercare di capire al meglio quanto mi stesse dicendo. In realtà non è, poi, necessario conoscere un vastissimo vocabolario, almeno i primi tempi si va molto ‘a senso’ e con l’intuito si capisce e si apprende molto di più di quanto si riesca con il dizionario in mano. Non è stato facile, ma poi, spontaneamente l’intuito è venuto in mio aiuto. A stare in mezzo a persone che parlano tutte una lingua diversa dalla tua si impara molto velocemente!

Intraprendere un percorso di studi all’Estero presuppone che si prenda casa presso l’Università di destinazione, lei come si è orientata?
Ci sono molte agenzie che offrono servizi specifici per gli studenti, basta spiegare la situazione, dire che si è Erasmus e il tempo di permanenza e loro avviano la ricerca sul posto per te. Nelle università, poi, si sono annunci proprio per gli studenti Erasmus, cosa che qui non è molto diffusa, poiché avere uno studente straniero in casa significa accogliere una persona con abitudini diverse ed esigenze differenti da quelle contrattuali che siamo abituati a vedere.

Qual è il sentimento che l’ha accompagnata in questa esperienza?
L’esaltazione e la nostalgia. Gli affetti mancano, moltissimo, ma si è presi dalla frenesia del voler vivere l’esperienza fino in fondo…

Affrontare gli studi fuori significa, anche, sostenere gli esami, come ha vissuto la sessione di verifica lontano dalla sua Università?
Con calma e concentrazione, molta più di quella che ho impiegato qui studiando sui libri scritti nella mia lingua. I docenti sono sempre stati molto attenti e comprensivi, mi hanno dato il tempo e mi hanno incentivato: capiscono la difficoltà di esprimersi e studiare in una lingua che non è la propria! Fortunatamente, poi gli esami si fanno dopo un paio di mesi di permanenza sul posto.

Qual è il valore aggiunto che ritraccia e che attribuisce all’Erasmus nella sua formazione?
Questa esperienza mi ha dato la possibilità di accrescere il mio bagaglio personale. Sia per la quantità di persone che ho conosciuto, sia per i diversi modi di vivere con cui sono entrata a contatto. Poi la stessa Galicia è contaminata dai costumi portoghesi data la vicinanza geografica con quest’altra nazione.

In definita questa è un’esperienza che consiglia ad altri studenti?
Consiglio vivamente a tutti di fare un periodo di studi all’estero poiché questa è un’esperienza che ti fa crescere, che ti fa vivere con persone provenienti da ogni parte del mondo. Solo così si riesce a capire che i confini in realtà non esistono, sono per lo più barriere mentali che ci costruiamo noi. Il confronto costante, poi, ti fa diventare una persona completamente nuova e certamente più pronta ad affrontare la vita.


Pubblicato sul n. 36 di Mezzo Euro in edicola dal 11/09/2010

lunedì 6 settembre 2010

A muso duro (Bruna Larosa)

Non solo avvocati, medici e ingegneri, nella nostra regione lo spirito
pulsante dell’arte coinvolge intere schiere di ragazze e ragazzi che,
coltivando con studio e dedizione le loro passioni, affollano i conservatori presenti nelle diverse province. Ma cosa significa coltivare un’arte come il canto e la musica in una realtà che si scontra tutti i giorni con problematiche gravi e lontane dalle belle arti? Ne abbiamo parlato con Domenico Barreca, già noto nella piana di Gioia Tauro come giovane talento del canto.

Qual è il suo sogno e cosa fa per coltivarlo?
Il mio sogno è legato alla musica: la compagna perfetta, grazie alla quale ho potuto vivere emozioni indescrivibili.. Nel futuro vorrei vivere di musica il che, per me, non significa per forza diventare un cantante famoso, ma svolgere un qualsiasi ruolo nel panorama musicale! Al momento sono iscritto al corso di canto jazz al conservatorio "S. Giacomantonio" di Cosenza. Quello del jazz è uno studio molto complesso, e sebbene lo abbia intrapreso solo da qualche anno mi sta dando veramente tanto,affascinandomi ogni giorno di più! Sempre a Cosenza studio canto moderno con Rosa Martirano, un'artista straordinaria e allo stesso tempo una persona che dal punto di vista musicale e umano non smetterò mai di ringraziare.

Un sogno così grande può essere penalizzato dalla regione in cui viviamo?
Io sono calabrese e sogno di poter rimanere nella mia terra pur facendo
musica, nonostante ciò, con il passare degli anni aumenta la consapevolezza di quanto ciò sia difficile. Quando penso alla Calabria la prima cosa che mi viene in mente è che mancano delle strutture per poter fare arte! La cosa che mi fa più rabbia, poi, è che pur essendoci artisti straordinari nella nostra terra li costringiamo a scegliere tra l’emigrazione e l’anonimato. La Calabria, indubbiamente, ha problemi ben più gravi a cui pensare, ma a parte qualche eccezione (ad esempio l’esperienza del promoter Ruggero Pegna che, tra mille difficoltà, ha dato tantissimo, anche dal punto di vista culturale, a questa regione) l'arte non vive di una reale considerazione, vuoi per incompetenza o inconsapevolezza. Mi domando perché, ad esempio, sul nostro territorio vengano preferiti i bellocci di turno e non gli artisti di qualità che vi vivono. Poi mi rendo conto che le persone non sono educate ad uno spettacolo di tipo diverso e seguono eventi che possiamo definire puramente ‘commerciali’ piuttosto che altri. Per questo è difficile cambiare le cose!

Lei parla di difficoltà eppure negli ultimi anni, complici vari show (talent o reality), sembra che le luci della ribalta siano più accessibili…
Per quel poco che ho potuto vedere so che prima di proporsi nel mondo dello
spettacolo c’è gente che studia anni e anni nelle varie accademie, investendo anche una notevole quantità di denaro ed infine, si trova costretta a dover dar spazio ai partecipanti di questo o quel reality arrivando a rinunciare al proprio sogno. Credo che questo sia l’effetto di un pubblico che sceglie di seguire quel tipo di programma, insomma, un problema di educazione ai media, come dicevo prima. Per quanto riguarda i talent show spezzo una lancia a favore dei ragazzi che vi partecipano, sicuramente avranno del talento e delle capacità, tuttavia, osservando la cosa da spettatore ritengo che il problema sia nella struttura del programma, in quanto spesso si ha l’impressione che tutto sia studiato a tavolino senza badare alla qualità della musica o dell’artista, ma al guadagno! Allo stato di fatto ad essere danneggiati sono ancora una volta i ragazzi che studiano nei conservatori e poi vengono scavallati per questioni di audience e notorietà.

Se potesse avanzare una proposta a chi di dovere per migliorare le cose nella nostra regione cosa diresti?
Il problema dell’arte riguarda tutta l’Italia, paradossalmente non viene
considerata un patrimonio culturale! Solo per fare un esempio il musicista in generale viene etichettato come un fannullone! Posso, invece, assicurare che studiare musica comporta tanti sacrifici e rinunce, ore ed ore di studio giornaliero. Sarebbe bello se un giorno non troppo lontano chi di competenza possa tutelare l'artista. Anche, ad esempio, sovvenzionando gli studi per chi frequenta i conservatori e le accademie, come succede in molte altre nazioni... Spero anche che i discografici la smettano di produrre musica usa e getta che tornino nei club, nelle cantine, nei locali perché lì, loro lo sanno bene, c'è il vero artista!!! Vista la situazione in cui versiamo un cambiamento è difficile, ma da sognatore incallito continuo a crederci.

C’è un motto una frase che la guida per descrivere la realtà che vive con i suoi colleghi?
La frase che considero il manifesto per chi vuole fare arte con il cuore è
quella di Pierangelo Bertoli della splendida ‘A muso Duro’: "canterò le mie
canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro un guerriero senza
patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro".


Pubblicato sul numero 32-35 4 settembre 2010 di MezzoEuro

domenica 5 settembre 2010

Pigotte in mostra per il ventennale (Bruna Larosa)

Il Comitato provinciale dell’Unicef di Cosenza ha scelto di celebrare il ventennale della Convenzione per i Diritti dell’Infanzia con un’iniziativa di sensibilizzazione molto interessante e di forte impatto: una mostra –istallazione di pittura e pigotte realizzate da Stefania Siragusa. I contributi raccolti saranno devoluti al Progetto ‘Protezione dei Bambini di strada in Bangladesh’, un piano che intende aiutare l’infanzia in un Paese in cui le condizioni precarie di vita hanno portato ad accettare l’immagine del bambino lavoratore come una circostanza positiva nella vita del minore.

Abbiamo incontrato Stefania Siragusa ed il critico d’arte Paolo Aita.
Quando si parla di un’artista generalmente si pensa ad una persona estrosa, magari anche eccessiva, invece Stefania è una donna simpatica, spigliata e molto disponibile e gentile, accoglie con un sorriso ogni domanda che le viene posta e cerca di rispondere con la semplicità e la chiarezza di chi ha le idee chiare e vuole arrivare a tutti. È un’artista dell’eteronimia, quella forma d’arte che accoglie gli ‘insegnamenti letterari’ di Pirandello e Pessoa, o il lascito filosofico di Nietzsche. L’artista, segue le sue diverse maschere, a mo’ dell’Uno, Nessuno e Centomila e cedendo a queste sfaccettature riesce ad aprirsi e a creare delle opere originali, ascoltando la sensibilità e le voci che rintraccia in se stesso.
Gli artisti sono persone che hanno una profonda sensibilità, ci sono quelli che la vivono dal punto di vista intimistico, altri invece che la orientano verso tematiche sociali…

Come è nato il suo rapporto con l’Unicef?
Sono sempre sensibile ai problemi sociali che davvero sono stati sempre tantissimi. Sono sempre stata attenta alle necessità dell’infanzia perché i bambini sono i soggetti più indifesi così come, anche, gli anziani, le persone sofferenti e quelle che hanno bisogno degli altri. Siccome volevo fare qualcosa per i bambini ho conosciuto Emanuela (De Cicco, volontaria presso la Sede di Cosenza, ndr) e Paola (Bianchi, presidente del Comitato Unicef Cosenza, ndr) che mi hanno proposto di realizzare delle ‘Pigotte d’artista’. Ho accolto con entusiasmo questa idea anche perché mi piace molto creare delle opere, sperimentare sui materiali, cucire, toccare con mano e mettermi alla prova.

L’Unicef lotta perché nessun bambino debba trovarsi nella condizione di crescere troppo in fretta, a tal proposito mi ha colpito l’espressione: ‘sana incoscienza dei bambini’, può darci una sua definizione?
I bambini sono esseri ingenui e genuini, non sono scaltri rispetto ai problemi della vita e siamo noi adulti che dobbiamo insegnare loro delle cose e questo è un aspetto meraviglioso dell’esistenza. Solo immedesimandosi nell’altro, nel fanciullo si riescono a capire alcune cose, dei punti di vista dei meccanismi.

Cosa si aspetta dalla giornata di domani?
Cerco di non crearmi aspettative, certo vorrei il meglio, e anche una vendita cospicua di quadri, perché il mio desiderio è di contribuire il più possibile a questo progetto molto importante.

Abbiamo scambiato qualche battuta anche con il critico
In genere l’arte è un fine, in questo caso l’arte è il mezzo per un nobilissimo scopo, lei da critico come osserva ciò?
Questo è il problema del rapporto dell’arte e della committenza, non c’è più quell’atteggiamento di pura e semplice celebrazione che c’era in altre epoche. Il problema è quello di vedere l’arte come pura, che parli di assoluti facendo astrazione del tempo, dello spazio e di altri elementi in confronto ad un’altra arte che cerca di sporcarsi le mani in problematiche fortissime e vivissime. Ci sono artisti che fanno arte con le problematiche, sono impegnati, altri che possiamo definire teorici. Non si può certo dire che ci sia bisogno più di un atteggiamento rispetto all’altro, in quanto se non c’è una condotta teorica non si forgia la sensibilità per avere orecchio, se non c’è la disponibilità di sporcarsi le mani non abbiamo neppure la disposizione a risolvere i problemi. Senz’altro Stefania appartiene al versante degli artisti facenti, non dimenticando che non possiamo considerare il ‘teorico e il facente’ atteggiamenti puri, ma categorie tagliate un po’, anche perché un artista nel corso della sua vita realizza opere differenti.

Cosa pensa del lavorare per la causa dell’Unicef?
Certamente lavorare per una causa così nobile come questa dell’Unicef ci dà molto piacere e ci offre la possibilità di fare qualcosa di concreto. Non è l’Unicef che ha bisogno di noi, ma noi dell’Unicef. Sono due secoli che gli intellettuali si interrogano su come agire e fare cose positive per tutti. Non c’è una risposta a questa domanda… Sapere di fare qualcosa che aiuta della gente a stare meglio per noi è estremamente positivo. È chiudere con una serie di rovelli teorici, mentali che rappresentano almeno in parte il mondo della cultura che tante volte ha fatto errori grossolani, nonostante il supporto di tanti testi e di tanta esperienza.

Cosa si aspetta dall’apertura al pubblico della mostra e dei discorsi che verranno tenuti a proposito?
Mi aspetto un’interrogazione, una sensibilizzazione da parte di tutti e a 360° sia per la capacità di ascolto per quel che riguarda il punto di vista culturale, che per le cose più pratiche la cui esperienza proviene da persone, in questo caso i bambini, che non hanno davvero voce in capitolo.


Pubblicato sul numero 48 di MezzoEuro del 28 Novembre 2009