Un Blog per proporre alcuni tra gli articoli che considero più belli tra quelli che ho scritto finora, sperando di onorare il lavoro del Giornalista che informa, intrattiene, suscita dibattito e opinioni. B.L.

martedì 23 novembre 2010

Il teatro nella società dell'apparire (Bruna Larosa)

È passato molto tempo da quando si riteneva che il teatro fosse il luogo delle maschere e in quella che oggi si ama definire la `società delle apparenze´ sembra non ci sia più spazio per questa interessantissima forma d´arte. È palese che ormai il potere del teatro non sia riconosciuto nella
contemporaneità, nonostante il ruolo che gli era stato attribuito, esso è stato via via sostituito da nuovi mezzi più comuni; così, se nell´Antica Grecia la tragedia aveva il compito di `purificare´ il pubblico mediante la katarsi, oggi i moderni mezzi di intrattenimento e informazione hanno superato per
preferenze e fruizione l´attività teatrale. In un clima nazionale di depressione solo chi crede davvero in questo linguaggio può andare avanti e avere la tenacia di proporre spettacoli innovativi e interessanti.

La Compagnia Bruzia Ballet è una realtà del panorama teatrale sorta a Cosenza dal desiderio di creare
qualcosa di innovativo proprio in questo territorio. Il teatro è stato spesso recettore dei vizi dell´uomo; attraverso le trasposizioni gli veniva affidato il gravoso compito di cristallizzare e palesare i mali dell´umanità creando una forte compartecipazione tra palco e platea. Riprendendo questa sfaccettatura la compagnia Bruzia Ballet propone un Musical, Barabba, che lo scorso 16 novembre presso il Teatro Morelli è arrivato alla sua settima rappresentazione. Quella proposta è una narrazione ricca ed emozionate, fluida e al tempo stesso piena di riflessioni, con una chiave di lettura immediata: si riflette su quanto sia giusto e legittimo giudicare un altro uomo per i suoi operati senza, magari, conoscerne l´animo; infondo in ognuno di noi alberga il bene e il male. In ciò il paradosso: il teatro, mondo della finzione è calato nel mondo reale in cui ognuno indossa una maschera e giudica con una certa facilità l´altro! Forte di un tale antefatto il musical propone come protagonista quello che, in una prima analisi, si può considerare "l´antieroe", recuperando per Barabba la dimensione umana fatta di bene e male, di peccato e purezza. Egli, nella sua cella in quella che crede sia la sua ultima notte, ripercorre in un
coinvolgente flashback gli episodi più significativi della sua vita mostrandosi a nudo, perdendo così la sua maschera di peccatore e riconducendosi a uomo tra gli uomini.
Il musical, rappresentato a Roma presso il Teatro Greco, ha ricevuto anche il plauso di Renato Greco, esperto e conoscitore del mondo teatrale.
Dell´affascinante mondo del teatro abbiamo parlato con Paolo Gagliardi coreografo, nonché direttore artistico della compagnia Bruzia Ballet.


Nonostante la crisi che sta attraversando il mondo del teatro il musical di cui lei è il coreografo sta riscuotendo un notevole successo, qual è il segreto?
Tutti noi della compagnia crediamo fortemente in ciò che facciamo, anche se dobbiamo riconoscere di essere dei `folli´ perché in questo clima di latenza investiamo le nostre energie in un campo forse troppo poco considerato. Eppure proprio il fatto di averci creduto ci sta regalando delle reali
soddisfazioni.

Per emozionare bisogna emozionarsi, eppure fare il coreografo significa trasmettere le proprie idee ai ballerini, quindi persone `altre´ che dovranno esprimere ciò che lei ha pensato. Come si fa a trovare un punto di incontro?
La profonda stima che nutro nei confronti del corpo di ballo è essenziale per sapere che ognuno di loro ha qualcosa di bello da esprimere e dare. Nella loro individualità riescono a darmi tanto e cerco sempre di mettere in luce il loro personale modo di interpretare un´emozione. Non entro nella sala con la coreografia pronta, si crea piano piano, tutti insieme. Si parte da un´idea, un input, poi spesso accade che il `mio´ movimento su un ballerino risulti anche migliore: riesca a interiorizzarlo e a rispecchiare ancor meglio ciò che io stesso pensavo!


Uno spettacolo teatrale, ancor meglio un Musical si compone di canto, recitazione e ballo, ma cosa c´è prima di arrivare ad avere un canovaccio da seguire?
Sicuramente alla base di tutto c´è una profonda intesa tra i membri del consiglio della compagnia seguiti dalla coesione e dal confronto libero e costruttivo con tutti gli altri. Dietro uno spettacolo c´è sempre un
profondo studio e un´ampia ricerca: del personaggio innanzitutto, poi delle ambientazioni, dei luoghi. Si scava dentro se stessi per trovare l´emozione giusta, quella che va assolutamente condivisa per far capire il proprio punto di vista circa i personaggi. Il lavoro introspettivo è alla base di ciò che
si porterà in scena. La nostra compagnia non penalizza un´arte per l´altra: l´intesa di vedute tra me, coreografo e Antonio Conti, regista, ha dato come esito la totale commistione di ballo e recitazione, cosa che non sempre si riesce a ottenere. Puntando tutti allo stesso obiettivo, cioè trasmettere
delle emozioni al pubblico, abbiamo raggiunto questo risultato di coesione però c´è voluto un lungo lavoro di discussione per sfatare le diffidenze iniziali che, provenendo da due `mondi diversi´, portavamo con noi.


Pubblicato sul n. 46 di MezzoEuro in edicola dal 20 novembre 2010.

lunedì 22 novembre 2010

Pennelli d'autore (Bruna Larosa)

Tutto ciò che riguarda la cultura e l’arte in Calabria ha purtroppo il sapore della rarità e dell’eccezione. Sempre protratti alla ricorsa delle grandi opere, le stesse che nella maggior parte dei casi si risolvono in ‘semplici’ cattedrali nel deserto, non si è soliti concentrare l’attenzione alla valorizzazione degli aspetti culturali presenti. Così mentre siamo tutti consapevoli del fatto che non solo la nostra terra sia custode di immani bellezze naturalistiche e di risorse archeologiche non ben valorizzate, ne’ custodite, allo stesso tempo siamo impassibili testimoni di giovani talenti dell’arte che spesso devono spostarsi altrove per dar sfogo al loro talento. Una sfaccettatura della fuga dei cervelli, questa, spesso messa in ombra da altri aspetti considerati dai più maggiormente competitivi nel mondo del lavoro e dello sviluppo. In ogni caso si tratta di una perdita per la nostra regione che arranca dietro le altre scopiazzando dei modelli che mal di confanno al suo spirito, piuttosto di creare un’identità propria fatta con le sue bellezze e i propri talenti. Non può esserci sviluppo senza ricerca e senza cultura, una regione che vuole risollevarsi dallo stato di inferiorità in cui è stata calata non può prescindere da tali particolari, spesso troppo dimenticati e svalutati. Alla luce di tutto ciò viene da chiedersi se è possibile dar sfogo al potere creativo e cosa si deve essere spinti e disposti realmente a fare per potersi
esprimere.

Abbiamo parlato di questo con un giovane artista contemporaneo, Pasquale De Sensi, lametino d’origine ed esatto modello dell’artista eclettico e appassionato. A soli ventisei anni ha partecipato alla Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea svoltasi a Roma e grazie alle sue opere ha avuto una segnalazione al Premio Celeste 2010 nella Sezione Grafica, oltre ad essere stato presente in numerose esposizioni sia collettive che personali sparse per tutta l’Italia.



De Sensi, ad oggi lei è un interessante personaggio nel panorama dell’arte contemporanea, che tipo di studi ha seguito per migliorare e maturare questa sua propensione?
Ho frequentato diverse Accademie di Belle Arti; a Roma, a Reggio Calabria, a Perugia, a Urbino, ma contemporaneamente ho sempre seguito un mio percorso di studi autonomo. Penso infatti che l'arte non si impari da altri e non si possa insegnare a nessuno. E’ un vero e proprio mestiere che richiede impegno e costanza ed il lavoro, per non diventare un sacrificio e quindi un danno, deve necessariamente corrispondere a una passione, a una inclinazione spontanea.


Da cosa trae ispirazione e quale messaggio intende lanciare con la sua arte?

L’ispirazione proviene soprattutto dalla musica che ascolto e dai libri. Ogni immagine che propongo è un pensiero diverso; mi interessa sopratutto creare dei contrasti e delle analogie visive abbastanza forti da suscitare nell'osservatore una ricerca di senso. Non traggo molti spunti dalla realtà di tutti i giorni che al massimo mi limito a fotografare ed usare come base. Senza il bisogno autentico e intimamente indispensabile di comunicare il proprio immaginario, l'artista rischia di diventare una specie di uomo di spettacolo, che lavora solo per il successo personale. Credo che per non cadere in questo genere di aberrazioni non si debba mai perdere il contatto con le proprie origini e la propria formazione intellettuale.

Calabrese d’origine ma continuamente in viaggio, è un desiderio o una necessità dettata, magari, dallo stato dell’arte nella nostra regione?

Le tematiche e i linguaggi con cui si confronta chi lavora nell'ambito dell'arte contemporanea possono essere definiti globali poiché non appartengono a questa o a quella regione; è per questo necessaria una apertura verso l'esterno. Ho vissuto per due anni a Reggio Calabria, una città con un  clima e un paesaggio invidiabili, eppure, appena possibile, il desiderio di vedere cose diverse mi porta a spostarmi e a viaggiare molto.


Qual è, dunque, il suo punto di vista sullo stato dell’arte in Italia e in Calabria più in particolare?

Ad oggi in Italia le discipline che riguardano la cultura umanistica vengono difficilmente riconosciute e ripagate dalla società; succede con le arti figurative, come per la musica e per il teatro. Per quanto riguarda l’arte contemporanea in sé, il problema in Calabria è principalmente di tipo politico. La Calabria è oggettivamente fra le regioni più chiuse e retrograde rispetto alla scena contemporanea nazionale. A parte Cosenza, Catanzaro con il Marca e il parco della Roccelletta di Borgia, la Calabria rimane una regione dove i progetti più ambiziosi vengono lasciati sfumare e si consumano in beghe amministrative e polemiche. Penso, ad esempio, al caso di Lamezia Terme, dove da anni si parla di realizzare un museo del contemporaneo intestato a Luigi Di Sarro: di fatto il progetto è fermo e diventa di anno in anno più modesto. La classe politica spesso non comprende che non può esserci sviluppo reale senza cultura.


Pubblicato sul n.° 46 di Mezzoeuro in edicola da sabato 20/11/2010.

lunedì 15 novembre 2010

Plasmata dal fango (di Bruna Larosa)

I dissesti idrogeologici non sono nulla di nuovo in Calabria: ogni provincia mese dopo mese ha fatto la conta dei danni dovuti all’incuria degli agenti atmosferici e all’errata fruizione del territorio. Costruire in maniera selvaggia, procurare incendi per ricavare zone edificabili, abbattere le piante per guadagnare sul legno ha infatti un costo molto più alto di quanto con superficialità si possa pensare. La casa rimane il bene primario nell’immaginario collettivo, così quando si ha l’opportunità di averne una propria, senza magari spendere una cifra eccessiva, se ne approfitta pensando di realizzare un affare. Questo è la mentalità in cui affonda le sue radici il mercato dell’edilizia senza coscienza. Al circolo vizioso che viene a crearsi tra quello che si può definire un costruttore senza scrupoli e l’ignaro cittadino va poi ad accostarsi l’estrema facilità con cui vengono concessi i condoni edilizi dai Comuni, tanto che più che un’attenta verifica del progetto e del terreno su cui sorge l’edificio, il tutto sembra una semplice formalità. Così ogni volta che il cielo s’annuvola il pensiero corre alle zone già colpite e a tutte quelle che potranno essere ‘le prossime’ vittime. Da mesi a Catanzaro ci sono degli sfollati poiché i problemi provocati dal maltempo la scoro inverno ancora non sono stati risolti. Sette tra i cittadini di Janò, il quartiere colpito hanno costituito il Comitato di Emergenza Janò. Tra i membri del Comitato Luigi Rubino, giovane del posto attivamente impegnato sul suo territorio.

Luigi, com’è sorta l’idea di creare un Comitato di Emergenza?
Il comitato è nato nel febbraio 2010 dopo che il territorio è stato colpito gravemente dal dissesto idrogeologico. I componenti principali del comitato sono sette persone tutte residenti nel quartiere; la maggior parte di loro ha perso la casa per via delle frane.


Quali sono e come vengono espletate le principali funzioni del Comitato?
La funzione principale è quella di lottare per i diritti della popolazione e in particolare di coloro che hanno perso la casa. Creiamo momenti di incontro, assemblee periodiche per fare il punto della situazione sugli interventi e le misure adottate dagli organi competenti sulla base delle esigenze di cui il territorio necessita. Nei periodi di allerta, cioè quando a causa delle precipitazioni è più alto il rischio, gli incontri sono più frequenti. Tutto ciò per informare la popolazione e condividere le idee altrui. Fondamentale per il comitato è l'ing. Luana Urizio, anche componente della commissione emergenza designata dal comune e dal CNR Unical. Ella monitora e descrive con dovizia di particolari tutti gli aspetti della vicenda. Il Comitato è un nostro punto di forza nell’incontro con le istituzioni per avere notizie e sapere il punto sui lavori avviati, finanziamenti e le prospettive future. Uno dei momenti più intensi della nostra attività è avvenuto il 16 aprile scorso quando l’intera collettività di Janò si è riversata per le vie della città dando il chiaro segnale di essere contro al silenzio e all'immobilismo da parte delle istituzioni. Sempre nello stesso mese, in collaborazione con la protezione civile, vvf, polizia municipale e il comune di Catanzaro, abbiamo effettuato una simulazione di sgombero. Al di là del gesto eclatante la cosa più importante fatta finora non risiede semplicemente nella volontà di spronare le Istituzioni a fare sempre meglio, ma anche nel vigilare sui modi e sui tempi d'intervento per la messa in sicurezza del territorio.


Le vostre iniziative sono molto partecipate, come siete organizzati per raggiungere il territorio?
C'è da dire che nell'era del web e della telematica il nostro rimane pur sempre un quartiere e il metodo principale di diffusione delle notizie è il porta a porta. Ciò avviene per l'impegno di ogni singolo cittadino, consapevole del grado di pericolo in cui versa la popolazione. Accanto a questo è forte la voglia di "risollevarsi" coinvolgendo tutti, anche quelli che sono "al sicuro". Poi le informazioni viaggiano anche su facebook, sul blog e sulla bacheca della cappella di quartiere, in cui si affiggono tutte le comunicazioni. La vicinanza del Vescovo della diocesi di Squillace e il nostro stesso parroco ci stanno dando un grande aiuto dal punto di vista spirituale e morale.


A quali esigenze volete dar voce con il Comitato e cosa siete riusciti ad ottenere ad oggi?
La realtà che ci ha colpito comporta delle esigenze ben precise alle quali il Comitato vuole dar voce presso le istituzioni affinché si mantenga sempre vivo l’interesse per ciò che è accaduto. Vogliamo offrire assistenza agli sfollati, procurando loro un alloggio; dar attuazione a interventi di somma urgenza e avere delle forze di pubblica sicurezza a tutela del quartiere. Chiediamo risposte certe e chiare dalle amministrazioni, pur avendo appurato che lo stato delle casse è al verde anche per questi casi. Naturalmente la situazione è ancora precaria, eppure qualcosa si muove già da un po’. È avvenuta infatti l'assegnazione del progetto esecutivo da parte del comune alle ditte competenti e sono stati avviati diversi interventi per arginare tutte le problematiche inerenti la raccolta acque, canalizzazione, drenaggi, sondaggi e palificazioni per la messa in sicurezza del territorio.




Pubblicato sul numero di MezzoEuro in edicola dal 13 novembre 2010

giovedì 11 novembre 2010

C'è chi a Rosarno cerca un futuro migliore (di Bruna Larosa)

La Calabria è una regione di frontiera che ben conosce il dolore delle partenze vivendo continuamente sulla sua pelle il sapore degli addii. Conosce anche il fantasma degli arrivi, quelli dei barconi della speranza che si adagiano sulle sue coste con il loro disperato carico di vite umane. Arrivi, questi, che vengono vissuti con amarezza e insofferenza perché, complice la perenne colpevolizzazione mediatica, molti conterranei sono convinti che gli emigranti non possano essere un’opportunità, bensì un nuovo motivo di beffa e denigrazione.
Più volte nei paesi del reggino si incrociano gli stranieri, per lo più africani, rumeni, curdi e di altre etnie. Parlando con loro non solo si scopre che molti sono laureati o professionisti, ma si viene a conoscenza di culture tanto diverse quanto affascinanti e degne, al pari di tutte le altre, di essere rispettate e apprezzate. I disordini che hanno caratterizzato i giorni del rovente gennaio di Rosarno non vengono dal nulla. La rabbia repressa ha semplicemente fatto il suo corso e data la frustrazione non è implosa ma esplosa in maniera inesorabile. Nonostante l’emigrazione appartenga alla storia del Sud, oggi, possiamo realmente capire cosa significhi emigrare? Possiamo avere idea del sapore che si prova quando si lascia la propria terra, si attraversa il deserto, ci si imbarca su navi che nulla hanno di solido se non la disperazione? Tutto per un sogno: la speranza di realizzare un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Una speranza che si alimenta mentre si mettono insieme i soldi per partire e prosegue fino al momento di solcare il mare.

Abbiamo parlato di questo con Andrea Scarfò, che sta presentando in giro per l’Italia la sua mostra fotografica, Magna Italia, realizzata all’indomani dei disordini avvenuti nel paese della Piana di Gioia Tauro. Alcuni dei suoi scatti sono stati inseriti nell’archivio di rinomate agenzie di stampa nazionali, mentre altre gli sono valse una menzione speciale al concorso internazionale "From A to B" bandito da Euroalter in collaborazione con Youthmedia.


Andrea, il suo è un reportage dal profondo valore sociologico e non solo; realizzarlo l’ha portata a incontrarsi con una realtà molto dura. Qual è il clima che ha respirato a Rosarno e che ha voluto immortalare nelle sue foto?

Il cardine di un lavoro a carattere giornalistico è la capacità di astrarsi dal proprio modo di vedere le cose così da restituire una visione il più possibile vicina alla realtà. Proprio in quest’ottica ho provato a ritrarre la realtà di Rosarno. Alcune foto, ad esempio, illustrano scorci del centro abitato che è un po' simbolo della ‘incompiuta calabrese’; dico così perché i tratti sono quelli comuni a tantissime località:  i palazzoni di più piani che si articolano in altezza senza rifiniture esterne, ne sono un esempio lampante! La mostra è stata ospitata nella Biblioteca Civica di Taurianova, ho accolto diverse scolaresche; ho così avuto modo di chiedere ai tanti bambini come pensano si possa crescere in un ambiente siffatto e loro rispondendomi ‘disordinato dentro’, hanno detto tutto.


Magna Italia è stata ospitata in molte regioni. Come è stata accolta in Calabria e che reazioni è riuscita a suscitare in contesti diversi dal nostro?

La mostra è stata presentata in contesti molto differenti tra loro: da nord a sud, in contesti sociali e in altri culturali. Nessuno è rimasto indifferente! A Taurianova, paese nel cuore della piana di Gioia Tauro, le signore dell'università della Terza Età mi hanno detto: ‘Anche noi quando raccoglievamo
arance mangiavamo solo quello!’ Questo è il motivo per cui la gente semplice non è avversa ai lavoratori africani: si riconosce in loro e nelle loro fatiche. A Mantova, invece, mi è stato chiesto ‘Noi che cosa possiamo fare?’. Io rispondo che bisogna tenersi in contatto per creare una rete di solidarietà non solo a parole ma anche nei fatti; è per questo che con l'Osservatorio Migranti di Rosarno andiamo in giro per l'Italia a chiedere aiuto.


Per realizzare questo reportage lei si è recato nei luoghi adibiti a ricovero per i lavoratori stagionali quando loro, ormai, avevano deciso di lasciare Rosarno. Che esperienza è stata?

Quando ho finito ho pianto. Con le foto, a mente fredda, provo a raccontare che gli africani fin quando lavoravano e avevano quindi una retribuzione riuscivano a cucinare, nonostante ciò il freddo e l'umidità li faceva ammalare in modo cronico! Altro tema che affronto, raccontando i posti dove vivevano, è la mancanza di assistenza, solidarietà e vicinanza da parte dell'Italia delle Istituzioni. Pensiamo che gli africani non avevano corrente elettrica o acqua corrente potabile o impianto fognario, tutto ciò porta alla mancanza assoluta di igiene!



Essendo lei una persona impegnata e creativa si è mai domandata cosa avrebbe potuto migliorare la situazione e quali misure sarebbe stato opportuno mettere in pratica?

Considerato che tutto si è scatenato per via della schiettezza degli africani, che hanno deciso di non sottostare alle angherie di chi pretende di controllare il territorio e per questo hanno avuto ascolto e considerazione; credo che sia necessaria la solidarietà della gente comune. Proporrei, poi, con ancora più forza di rispettare e far rispettare le leggi. Ad esempio stabilire un prezzo degli agrumi al produttore più equo, dare lavoro facendo contratti regolari e fornendo, come prescritto dalla legge per i lavoratori stagionali, un reale alloggio per gli stessi. Non sono idee innovative, è semplicemente la constatazione di ciò che sarebbe giusto si facesse. Prospetterei, poi, che tutti i calabresi che ricevono contributi per lavoro bracciantile fittizio vi rinuncino. Non solo! Sarebbe anche opportuno che i sindacati si autodenunciassero come colpevoli di questo meccanismo. Sappiamo benissimo che da queste parti la ‘ndrangheta è la regista di ogni cosa, così, solo proponendo la giustizia e la legalità possiamo considerarci fattivamente impegnati a combatterla.



Pubblicato sul numero 44 di MezzoEuro in edicola dal 6 novembre 2010

martedì 2 novembre 2010

La sfida del dopo terremoto (Bruna Larosa)

Ci sono terre che non smetteranno mai di piangere i propri figli, sono i paesi coinvolti nelle calamità naturali che devono fare i conti con le vittime dell’incuranza di altri uomini, progettisti, costruttori o collaudatori che siano. È il caso della ferita aperta dal terremoto il 6 aprile 2009 tra gli Appennini abruzzesi. L’onda emozionale che si scatena in corrispondenza di eventi catastrofici è intensa e al tempo stesso labile, per questo l’attenzione e la sensibilità che si dimostra nell’immediatezza di un fatto non riescono a perdurare nel tempo. Generalmente la considerazione delle persone rispetto a una determinata problematica muta come cambia l’interesse dei media; ma nonostante siano sempre meno le finestre aperte sull’Abruzzo è passato troppo poco tempo perché il terremoto che ha devastato L’Aquila possa essere un semplice ricordo. Alcune parti della città sono avviate alla ricostruzione e tra un cantiere e un edificio sigillato tutta l’intera provincia appare essere un’insieme informe di polvere e lacrime. La gara di solidarietà che si è accesa nei confronti degli aquilani si è scatenata nelle settimane successive la tragedia trasformandosi in aiuti pratici e immediati.

Ma L’Aquila non è solo edifici e monumenti, bensì una città con suoi enti e le sue istituzioni; tra questi l’Università da sempre meta di numerosi studenti definiti fuori regione. Moltissimi universitari, all’indomani del terremoto, hanno chiesto il trasferimento in altri istituti di formazione; risuona forte l'eco delle parole di una ragazza che ha scelto di allontanarsi da L’Aquila ‘C’è bisogno di gente che lavori, ora. Che riesca a lavorare senza pensare a nulla perché se si riflette non si trova più la forza di reagire’. Malgrado la tragedia assistiamo oggi ad uno dei rari casi in cui un’Università impugna con forza il suo ruolo sul territorio e, invece di implorare sovvenzioni e aiuti, reagisce producendo politiche inclusive per gli studenti che vogliano immatricolarsi in uno dei suoi corsi di laurea. Per risorgere l’Università abruzzese attinge a piene mani dalla sua essenza più pura e si permette di puntare sulla ricerca e sulla formazione di giovani menti. Tra gli studenti che hanno colto la sfida anche una giovane calabrese, Federica Orlando, laureata in Mediazione Linguistica, che ha deciso di iscriversi al corso di laurea specialistico presso la Libera Università degli studi de L’Aquila.

Come mai ha scelto di iscriversi all’Università de L’Aquila?
Il corso di laurea specialistico in Mediazione Linguistica dell’Unical è stato chiuso, così per proseguire i miei studi ho avuto la necessità di guardarmi intorno e di spostarmi. Visto quanto è accaduto in Abruzzo ho deciso di iscrivermi a L’Aquila; certo sarebbe stato più semplice andare in una città con mille servizi e pagare lì le tasse, invece ho preferito dare il mio contributo proprio a questa università che di servizi può offrirne pochi, ma merita assolutamente il contributo di tutti per risorgere. 

Ad oggi ha riscontrato dei disagi particolari?
La Facoltà di Lettere è situata nella zona industriale, appena scesa dal bus il primo giorno mi si è stretto il cuore: una copisteria, un bar microscopico e solo fabbriche e capannoni. Ho avuto, però, modo di incontrare altri studenti che si sono ‘abituati’ alla situazione, solo per fare un esempio, i ragazzi si portano il pranzo da casa perché non ci sono servizi di alcun tipo.

Di dove sono i suoi colleghi e come si trova?
I miei colleghi sono principalmente di Napoli, Teramo, Sulmona, Avezzano, Roma… Sono l’unica calabrese della mia facoltà, scherzano sull’accento, ma tutti hanno dimostrato di essere particolarmente abituati ai ‘forestieri’.

Siamo tristemente abituati a sapere che L’Aquila è solo cantieri e polvere, lei che atmosfera ha respirato?
Il centro storico è inagibile, ma non bisogna pensare solo alla città. Tantissimi paesini limitrofi sono stati piegati dalla furia della natura e dall’incoscienza umana. Sono stata lì qualche giorno fa, in un bed&breakfast e mi sono ritrovata praticamente in mezzo alla natura! La struttura originale era stata definita inagibile e i proprietari hanno trasferito l’attività in container e anche loro abitano in uno di questi. Nonostante ci sia stata per alcuni giorni non posso neanche immaginare cosa significhi vivere così dopo aver avuto una vita diversa e tutte le comodità di una casa vera. Tra le persone c’è chi rivive il trauma, ma c’è anche chi sfrutta la tragedia, ad esempio, gli affitti per gli studenti sono altissimi soprattutto se paragonati a quelli di altre città che possono offrire servizi e altro! Le persone che ho incontrato hanno dentro una grande ferita, altre sembrano essersi chiuse e non so se col tempo riusciranno a superare la cosa. Tutti coloro che hanno avuto la volontà di rimanere, però, dimostrano di aver maturato una grande forza interiore dalla quale trarre la volontà di reagire e ricominciare.

Pubblicato sul n. 43 di MezzoEuro in edicola dal 30 ottobre 2010

lunedì 25 ottobre 2010

Laurearsi e arrangiarsi (Bruna Larosa)

Il ‘posto fisso’ inteso come modello di impiego tanto vicino e caro ai nostri stessi genitori è arrivato ai suoi ultimi anni. La situazione in Italia è, infatti, molto cambiata tanto che il contratto a tempo indeterminato si è trasformato in un mito e un miraggio. Sono numerose le teorie che si avvicendano sulla compianta scomparsa del posto fisso, di base c’è la crisi economica, ma a questa si accostano le voci di chi addita il lassismo di alcuni impiegati che non avendo onorato il loro lavoro hanno fatto preferire in termini di risultati la flessibilità e la mobilità. Il modello economico cui siamo abituati è ormai scomparso ed è assolutamente impensabile un ritorno allo stesso: troppi cambiamenti sono intercorsi, cambiamenti che riguardano soprattutto la mentalità imprenditoriale. Tale modifica avrebbe dovuto investire anche il mondo della formazione, ma di fatto non è stato così. Principalmente al Sud ci sono schiere di laureati che non trovano lavoro e per mantenersi si adattano a mettere da parte il proprio titolo e a darsi da fare per ciò che c’è. I principi dell’economia distinguono giustamente diversi tipi di disoccupazione, generalmente siamo abituati a sentir parlare di disoccupati ‘volontari’ e di quelli ‘involontari’; i primi sono coloro che decidono di non impiegarsi in un ambito lavorativo perché non lo riconoscono come proprio e ‘aspettano’ di meglio, gli altri sono coloro che vorrebbero lavorare ma non trovano. Nonostante la fisiologica ciclicità ‘crisi/ripresa’ ci troviamo oggi nel bel mezzo di uno stato latente di disoccupazione involontaria in Calabria come nel resto d’Italia. Appena una decina di anni fa avere un titolo di studio quale la laurea poteva significare fare la differenza rispetto ad altri aspiranti ad un posto o ad un concorso, oggi è invece palese che la massificazione dell’istruzione superiore non cammini di pari passo con le possibilità di assorbimento del mercato. I pochi concorsi indetti dalle amministrazioni sono assediati da numerosissimi aspiranti e ogni altra opportunità è costellata di incertezze. Così, laureati e beffati, dopo tanti studi i ragazzi sono costretti a fare i conti con il lavoro che non c’è, e che quando c’è non risponde alle aspettative che avevano costruito. L’opinione pubblica, complice la riforma universitaria Moratti, ha svalutato il titolo di studio a favore talvolta della praticità; accade che i laureati si vedano scavallare da persone magari con titolo di studio inferiore ma con esperienza, oppure da chi ‘vanta’ una laurea quadriennale. Abbiamo parlato di questo con Donatella Molino, giovane dottoressa che da quando ha conseguito il titolo non ha fatto altro che guardarsi intorno e cercare delle opportunità di lavoro.

Da quanto tempo si è laureata e in quale disciplina?
Mi sono laureata da tre mesi, il corso di studi prima triennale e poi specialistico mi ha portato a conoscere diversi meccanismi dell’economia e dello sviluppo. In particolare mi sono preparata ad affrontare problematiche nel campo della cooperazione e dello sviluppo dal punto di vista diplomatico.

Dal punto di vista professionale a cosa si è dedicata in questo periodo di tempo?
Ho mandato CV e domandine nella mia provincia, Cosenza e anche fuori regione, ma la situazione è drammatica in tutta Italia! Lo deduco dal fatto che su tantissime proposte che ho avanzato neppure un’azienda o un ente mi ha dato risposta! Mi sono informata e ho visto che è all’Estero che avrei maggiori possibilità di far valere i miei studi e il mio titolo, ma sarà sicuramente necessaria un’ottima preparazione in lingua straniera. Intanto, in attesa di una migliore sistemazione occupazionale sto lavorando in uno dei tanti call-center presenti a Rende.

Lei è dottoressa, i suoi colleghi di call-center che titolo di studio hanno?
I miei colleghi sono quasi tutti laureati, siamo lì nell'attesa di un lavoro inerente a ciò che abbiamo studiato e, intanto, ci sosteniamo economicamente con un impiego che poco e niente ha a che vedere con gli studi fatti.

Quando si intraprendono degli studi in un certo senso si insegue un sogno, lei e i suoi colleghi che considerazioni fate a proposito della diffusa situazione economico lavorativa?
Tra noi nei momenti di pausa riflettiamo spesso su come sia dura da digerire l’aver fatto tanti sacrifici per conseguire il titolo e poi ritrovarsi a fare un lavoro che speriamo ci servirà solo da tampone e per poco tempo. Mi rendo conto di quanto sia ‘triste’ dover parlare così, quando molte persone fanno la fila anche solo per un posto come il nostro, ma non si tratta assolutamente di ingratitudine, bensì voglia di realizzarsi per ciò che si desidera. Personalmente per come è il mondo del lavoro so che devo ritenermi fortunata ad avere almeno questo impiego, eppure è costante l’idea di poter avere qualcosa di più inerente alla preparazione che ho e agli studi che ho fatto!



Pubblicato sul n. 42 di MezzoEuro in edicola dal 23 ottobre 2010

lunedì 18 ottobre 2010

La 'ndrangheta ritornerà più forte di prima (Bruna Larosa)

Solo un incantesimo della Fata Morgana potrebbe forse ricomporre il complicato mosaico di poteri leciti e illeciti che influenzano la vita della popolazione che abita la punta d’Italia. Nella realtà però le favole non esistono e i giorni dei reggini sono costellati di paura, per ciò che potrebbe accadere e la consapevolezza che così non si può continuare. L’insistenza degli ultimi avvertimenti ai danni di coloro che lavorano contro la mafia, e la loro durezza non lasciano indifferente nessuno e l’opinione pubblica calabrese, ma non solo, vuole sia fatta chiarezza ponendo delle domande cui ci si aspettano precise risposte. Il problema delle intimidazioni, tuttavia, non è una novità, sebbene ultimamente si manifesti in maniera più viva e palese, come da alcuni anni non succedeva. La cittadinanza di Reggio Calabria, poi, ne ha una percezione certamente amplificata rispetto a quella che può essere trasmessa mediante le notizie scandite dai media. Se gli avvertimenti mafiosi lasciano tristemente interdetti si rimane assolutamente perplessi davanti a ciò che si è pensato per fronteggiare tale problema: l’invio dell’esercito a presidio delle zone sensibili. La popolazione del reggino si divide davanti a tale possibilità e sebbene il problema sia avvertito considerevolmente da tutti, aleggia per l’area metropolitana una certa diffidenza ed estraneità nei confronti del provvedimento che è stato presentato per limitare e, magari, sconfiggere il problema della criminalità organizzata.


Abbiamo incrociato i cittadini del reggino e della città metropolitana interrompendo anche se solo per un attimo la loro corsa per chiedere di condividere con noi la loro opinione su questo espediente che tanto fa discutere. Molti, invero, preferiscono non pronunciarsi, altri affermano la forza della ‘ndrangheta e l’inutilità di questa soluzione per gestire una situazione tesa e difficile, poi c’è chi invoca più sicurezza e chi è rassegnato alla situazione attuale, ricordando, probabilmente tempi peggiori.


‘Questo provvedimento non serve a nulla, afferma Francesca Cavallo, perché la mafia, di certo, non si farà intimorire dall'esercito. La ‘ndrangheta è sempre esistita ed esisterà sempre: questa è la realtà ed è inutile pensare che l'unione fa la forza o altro perché dobbiamo vedere in faccia la realtà e capire che parliamo di una vera e propria istituzione che non verrà mai a cadere!’. La ‘ndrangheta si presenta, quindi come la Forza per eccellenza, quasi fosse una ‘reale’ istituzione, convinzione che rinsalda le sue stesse basi e idea che purtroppo è ben radicata sul territorio. Anche altre persone si dimostrano dubbiose circa la bontà del provvedimento e propongono soluzioni alternative, ‘Non sono convinto dell'utilità dell’esercito a Reggio, dice Antonio Caristo, quello che è nato lungo anni di indifferenza e accondiscendenza non può essere risolto in pochi giorni con l'arrivo di contingenti militari. Questa decisione, inoltre, comporterà dei costi non indifferenti, soldi che sarebbe più opportuno destinare all'istruzione e ai ricercatori in modo da agevolare la ripresa delle lezioni e cercare di migliorare la situazione di caos in cui verte l’università’. Stefania Lombardo replica alla nostra domanda asserendo che a suo avviso ‘l’eventuale arrivo dell’esercito a Reggio Calabria probabilmente non risolverà niente e servirà solo da propaganda politica. Non è stato neanche specificato per quanto tempo sarà presente, magari per un breve periodo, il tempo necessario perché la piovra torni nella tana per studiare come rafforzarsi! A Reggio non serve l'esercito, ma persone come i magistrati e le forze dell'ordine disposte a lavorare anche sotto copertura per scovare cosa e chi c'è dietro a  tutto questo marciume, pur correndo il rischio di smascherare dei corrotti eccellenti, siano magistrati, politici, o agenti. Una misura necessaria, continua la ragazza, sarebbe quella di rafforzare il sistema di sicurezza dei magistrati che lottano contro le ‘ndrine. È un dato di fatto che la loro sicurezza sia precaria, sarebbero anche da aumentare gli stipendi di queste persone che ogni giorno, per amore verso lo Stato, mettono in pericolo la propria vita. Inoltre è vero che le intimidazioni sono fatte a Reggio Calabria, ma la situazione non è certo più mite in altre zone della regione, penso subito alla Locride, a questo punto perché inviare l’esercito solo nella città? Insomma credo sia riduttivo che il governo pensi sia sufficiente l'esercito a sconfiggere la mafia, dovrebbe, invece, concentrarsi su forze di sicurezza da gestire in maniera intelligente’. Giuseppe Falleti ascolta interessato la nostra domanda e poi si unisce al coro di coloro che ritengono tale provvedimento inutile, anzi, forse addirittura controproducente: ‘Credo che l'invio dell'esercito potrà servire solo e semplicemente a inasprire la situazione già tesa e difficile. La ‘ndrangheta è caratterizzata da vincoli familiari che legano le diverse famiglie per questo motivo è difficile che i nodi saltino: oltre ad un legame di interessi è vivo il legame di sangue. È vero che le famiglie possono avere degli screzi, ma è anche vero che potranno organizzarsi tra loro con una certa facilità e fare scudo unite contro lo Stato’. Incrociamo anche Chiara Placanica che, al contrario degli altri, si rivela favorevole al provvedimento che viene proposto. Convinta ci risponde che ‘ritengo che sia necessario l’invio dell’esercito a Reggio Calabria così si ha la possibilità di controllare più attentamente io territorio, specialmente i posti dove risiedono gli uffici giudiziari e in particolar modo l’area in cui hanno sede gli spazi della procura. Indubbiamente è un modo per scoraggiare o quanto meno provare a contenere le azioni intimidatorie nei confronti dei magistrati’.

Uniti contro la ‘ndrangheta, i reggini continuano le loro giornate fatte di piccole sfide quotidiane, divisi tra le bellezze della loro città e ciò che solo alcune persone tramano nell’ombra.

Pubblicato sul n. 41 di MezzoEuro in edicola dal 16 ottobre 2010